Il ritorno alla normalità non deve diventare la scusa per non riflettere sulle opportunità del digitale. E magari provare ad anticipare i tempi
“Nulla sarà più come prima”: una frase che abbiamo sentito spesso, sia nei giorni più difficili della pandemia, sia adesso che tra tante incertezze si pensa a come riprendere le attività di un tempo. Pronunciata con la speranza, venata di millenarismo, di un luminoso futuro o al contrario, con apocalittici timori di sventure, quel “nulla sarà come prima” si scontrerà inevitabilmente con le più tenaci forze sociali: l’inerzia, l’abitudine, il “poi si vedrà”. Più che la voglia di “tornare a vivere” – altra frase ricorrente in questo periodo –, sarà l’apatia verso i cambiamenti improvvisi a farci lentamente tornare agli stili di vita precedenti la pandemia.
Eppure, parlando dopo la pausa forzata del Lockdown con diversi operatori culturali, è emersa la consapevolezza che sì, l’emergenza sanitaria ha fermato tutto e con difficoltà si pensa a come ripartire, a come riparare i danni. Ma, al contempo, questa pandemia ha accelerato processi e tendenze già in corso, per cui correre ai ripari spesso ha significato anticipare i tempi di cambiamenti sociali solitamente lenti e graduali. Iniziando dalla cosiddetta “rivoluzione digitale”, ma più in generale un diverso modo di concepire la mobilità, l’equilibrio tra lavoro e vita privata.
Le difficoltà negli spostamenti e nell’incontrarsi di persona hanno portato a una smaterializzazione improvvisa e forzata delle nostre vite; una prova utile tuttavia per comprendere quali aspetti e attività non è possibile digitalizzare, cosa c’è di davvero importante nell’andare a un concerto, a uno spettacolo teatrale o anche solo a fare la spesa o a lavorare. E per comprendere cosa, invece, da una virtualizzazione può guadagnare e migliorare, magari fare addirittura un salto di livello.
Una riflessione su quanto fatto finora che purtroppo non tutti sembrano voler fare: in molti attendono il ritorno alla normalità, pensano all’emergenza sanitaria come a una parentesi che, una volta chiusa, non cambia il senso delle nostre vite. Perché quel senso cambierà comunque, e conviene rendersene conto. Stupisce, e un po’ preoccupa, vedere il sindaco di Milano, città da sempre alle prese con grandi problemi di mobilità, sollecitare la fine del telelavoro perché “se dovessimo considerarlo normalità dovremmo ripensare la città” (come dichiarato a SkyTG24 pochi giorni fa). Le città andranno comunque ripensate: la priorità, più che tornare all’era pre-Covid, dovrebbe essere pensare a come costruire il post-Covid. Soprattutto per evitare storture e ingiustizie perché se ha grande potenzialità, la smaterializzazione presenta anche grandi rischi. Pensiamo all’omologazione, alle difficoltà per le realtà locali di competere con i grandi attori globali. E soprattutto alle ineguaglianze: il telelavoro, la didattica a distanza o anche solo il seguire un evento online non sono la stessa cosa per tutti ma dipendono dalle risorse – economiche, tecnologiche, abitative – delle persone. Da questo punto di vista, la scrivania, il banco e la poltrona in teatro o allo stadio sono democratica garanzia di uguaglianza.
Nulla sarà più come prima: non per la pandemia, ma perché niente rimane costante, nella vita e nella società. Semplicemente, stiamo avendo un’occasione per riflettere su questi cambiamenti.