Venticinque anni fa il più grave massacro compiuto in Europa dalla fine della Seconda guerra mondiale
Quando le truppe di Ratko Mladic entrarono a Srebrenica, pochi compresero che cosa vi stava accadendo, e men che meno che cosa vi sarebbe successo. L’11 luglio 1995, la nostra parte di mondo era stanca delle guerre jugoslave (poco più di cinque mesi dopo, gli accordi di Dayton avrebbero in qualche modo messo fine a quella di Bosnia), l’informazione internazionale non sapeva più come parlarne, ai politici mancavano le parole, fossero pure di circostanza.
Le poche immagini seguite alla caduta dell’enclave bosgnacca nell’autoproclamata Republika Srpska furono quelle del generale serbo-bosniaco che rassicurava donne e bambini (questi con gesti affettuosi) che nessuno avrebbe torto loro un capello, e poi mentre brindava con gli ufficiali del contingente olandese di caschi blu, che quelle donne, quei bambini e gli uomini assenti dalle immagini avrebbe dovuto proteggere.
Alle telecamere della tv serba rilasciò invece una breve dichiarazione: “Doniamo questa terra alla Nazione Serba” per vendicarla della dominazione musulmana.
Mentre Mladic parlava, il rastrellamento di tutti i maschi dell’enclave, dai quattordici anni in su, era già in corso, la loro eliminazione già iniziata. Nel giro di tre giorni, oltre ottomila uomini furono uccisi, i loro corpi gettati in fosse comuni.
Il più grave massacro compiuto in Europa dalla fine della Seconda guerra mondiale (Serbia e Russia continuano a rifiutare la definizione di genocidio) venne perpetrato all’insaputa, se non nell’indifferenza, di opinioni pubbliche, governi e organismi internazionali.
Nel quarto di secolo trascorso da allora, la giustizia ha più o meno fatto il suo corso, ma ancora più a fondo ha operato l’oblio, una strenua determinazione a considerare “storia” quel passato così vicino, forzandolo in una dimensione di inaudita “violenza etnica” generata da odi atavici. Come se fosse possibile sterilizzare la pietà per le vittime e il trauma dei sopravvissuti ricollocandoli in una categoria storica, soprattutto quando la storia stessa investe le nostre politiche per il ruolo che ebbero in quel crimine. La richiesta di un intervento aereo per fermare l’attacco serbo, tardiva e comunque respinta; la consegna ai serbi dei maschi che si erano rifugiati nella base olandese da parte degli stessi caschi blu; le insinuazioni sull’abbandono di Srebrenica da parte del governo di Sarajevo quale scotto da pagare per avvicinare la fine della guerra. Verrebbe da dire che nella muta distesa di tombe di Potocari, dove sono raccolti i resti degli uomini trucidati, sono sepolte anche le colpe e l’onorabilità di chi omise di agire. Ma no, farlo infliggerebbe un torto in più a quelle vittime, che non della nostra pietà hanno bisogno.
Piuttosto: se proprio si vuole continuare a chiamare musulmani gli ottomila bosgnacchi (la definizione corretta degli abitanti di tradizione musulmana in Bosnia) fatti fuori dai cristianissimi assassini di Mladic si pensi anche a quante volte si è evocato un “pericolo musulmano” incombente sui nostri Paesi. Se davvero ci tengono, i difensori delle sue “radici cristiane” facciano la conta dei morti per mano islamica in Europa negli ultimi venticinque anni e li confrontino con quelli di Srebrenica: quanti ne mancano a fare ottomila.