Parola d’ordine: favorire le condizioni per spalmare il più possibile nel tempo l’arrivo della malattia e tutelare chi è in là con l’età
Da giorni le notizie sul coronavirus sono fra le più lette. Ieri i ministri Vitta e De Rosa hanno esplicitamente affermato che la situazione è ‘seria e delicata’. In questi giorni (febbrili), stiamo tutti cercando di capire come tutelarci, anche cambiando le più normali abitudini nella vita quotidiana. Che il momento sia di una certa gravità – e non più solo nella lontana Cina e nella vicina Lombardia – lo abbiamo compreso: se così non fosse, non ci troveremmo comunicazioni ufficiali, indirizzate alla popolazione direttamente dai governi cantonale e federale anche più volte la settimana, e persino conferenze stampa alle quali presenziano membri di esecutivi seduti accanto a specialisti e medico cantonale. Una sventagliata di messaggi col marchio dell’ufficialità che hanno un pregio indiscutibile: nel mare aperto delle notizie (di ogni genere e qualità) che circolano, ci aiutano a informarci e a farlo bene.
Rassicura vedere a ritmo quasi giornaliero il dottor Merlani (e non solo lui) a disposizione dei media per rispondere alle più svariate domande che si modificano col mutare della situazione: il primo contagiato; il contagio al pronto soccorso e in casa anziani; la prima quarantena (di 15 giorni) di classi di una scuola; il primo morto; l’arrivo di ambulanze militari al Sud; la limitazione delle visite nelle strutture sanitarie... Emergenze che – lo notano tutti – possono anche ricevere risposte diverse a pochi chilometri da qui.
Così assistiamo all’adozione di misure particolarmente invasive in Italia, dove si è optato per isolare interi paesi già a Carnevale e, da un paio di giorni, si è deciso di chiudere scuole e università.
E da noi? Ma come, fin qui si giustificano al massimo le quarantene mirate per chi è entrato in contatto diretto con un allievo o un docente infetto e si evita di lasciare a casa tutti gli allievi, perché poi, in tante occasioni, sarebbero i nonni a doversene occupare? Nonni anziani che sono l’anello debole della catena e che vanno protetti. Perché tali differenze?
Potremmo disquisire a lungo su chi ha ragione e su quale strategia sia la migliore. Ma ha senso? No, non ne ha per due motivi. Il primo è che ci troviamo di fronte a un virus che evolve abbastanza rapidamente e non necessariamente in modo uguale nelle diverse comunità. Quindi, anche due paesi poco distanti possono preferire misure diverse e apparentemente contraddittorie fra loro. Del resto, proprio per evitare di avere soluzioni diverse in vari cantoni, il ministro Berset ha sentito l’esigenza di impartire direttive ai capi dipartimento della sanità cantonali. Ma il secondo motivo è che disquisire da profani non ci porta lontano: è il momento di affidarsi alle autorità in sala comando che, fin qui sia a livello federale che cantonale, ci sembra si stiano muovendo con una certa coerenza e tanta (bravi!) trasparenza in un ambito nuovo per tutti.
Nuovo per noi che, su invito di Berna, dobbiamo persino tenere le distanze dai nostri interlocutori. Cosa non facile, tanto che lo stesso Berset l’altro giorno ha iniziato una conferenza stampa stringendo una mano. Nuovo per le aziende, confrontate col cigno nero del virus e dell’incertezza, che chiedono di allargare la cerchia dei beneficiari degli aiuti statali a sostegno dell’economia per chi è fermo o quasi e per chi teme di poter venir fermato nelle attività da quarantene calate dall’alto. E nuovo per lo Stato che è confrontato con un problema inedito: fare di tutto per evitare un picco di contagio tale da mandare in tilt il sistema sanitario.
Quindi, la parola d’ordine è: responsabilità individuale per favorire le condizioni capaci di spalmare il più possibile nel tempo l’arrivo della malattia e solidarietà intergenerazionale e con le persone più esposte.