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De Rosa e la crisi, sanitaria ma anche sociale

Il direttore del Dss parla della divergenza di vedute con Berna, delle priorità nella ripartenza, delle nuove sfide sanitarie e dell'impatto del coronavirus sui più deboli

(Ti-Press)
6 maggio 2020
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«Riemerge qualche divergenza di vedute» con Berna che vuole affrettare le riaperture, e intanto alla Svizzera serve un sistema sanitario più autosufficiente. Altre sfide aspettano ospedali e cliniche ticinesi, mentre all’emergenza si aggiunge la recessione. Con Raffaele De Rosa, Consigliere di Stato e direttore del Dipartimento della sanità e della socialità, proviamo a capire cosa accadrà ora che andiamo verso la ripartenza.

De Rosa, quella che si profila è una crisi sociale senza precedenti. Cosa ci aspetta?

È vero, oltre al dolore per le persone decedute e gli ammalati, tutta la popolazione è messa sotto pressione; pensiamo anche solo allo stress, all'ansia, al senso di solitudine. Se partiamo dal dato della Segreteria di stato dell’economia possiamo già capire l’estensione della crisi: si parla di un calo del 6,7% del Pil nazionale, ed è verosimile che il Ticino, più colpito dall’emergenza, scenda ancora di più. 

La pressione, quindi, sarà anche sul sistema sociale.

Dovremo prepararci a un aumento della spesa sociale, anche se è troppo presto per fare previsioni precise. Per ora non vediamo ancora un incremento significativo nella richiesta di aiuto, nonostante la piena accessibilità degli sportelli Laps anche via e-mail. È chiaro comunque che bisognerà affrontare grosse difficoltà economiche, e quindi anche sociali.

Che fare?

A fronte di una situazione straordinaria si sono messi in campo anche degli strumenti straordinari. Fortunatamente il Consiglio federale ha accolto diverse richieste che il Consiglio di Stato aveva avanzato: l’estensione dell’indennità di disoccupazione, l’applicazione rapida e snella delle indennità per lavoro ridotto, la possibilità di usufruire dell’indennità perdita di guadagno anche in modo retroattivo per l’intera finestra di crisi, anche per i settori non toccati direttamente dagli ordini di chiusura.

E il Cantone come si sta muovendo?

Siamo intervenuti per semplificare l’accesso alle prestazioni sociali: abbiamo prorogato le procedure di rinnovo per gli assegni familiari e di prima infanzia, abbiamo garantito per ulteriori 3-6 mesi (a seconda delle singole situazioni) tutte le prestazioni di aiuto sociale prossime alla revisione del caso. Tutti sono toccati, e in particolare le persone più fragili: è importante dar prova di flessibilità e rapidità per andare incontro a questi bisogni.

L’impressione è che Berna abbia capito la gravità della situazione e abbia smesso di “riderci in faccia”, com’ebbe a dire lei stesso all’inizio della crisi.

Devo dire che all'inizio c'era una netta differenza tra il Ticino e Berna nella percezione di quello che stava succedendo, come d’altronde era in parte inevitabile data la nostra vicinanza al focolaio lombardo. Poi invece la Confederazione ha capito l’importanza di quanto stavamo facendo e del pericolo cui eravamo esposti, e ci ha dato pieno sostegno.

Ora, però, il Consiglio federale spinge per riaprire.

E in effetti riemerge qualche divergenza di vedute: vediamo il mondo svizzerotedesco che spinge per accelerare le riaperture, mentre il Ticino e i cantoni romandi – alcuni pure molto più colpiti – chiedono prudenza. Personalmente, trovo troppo ravvicinate le riaperture del 27 aprile e dell’11 maggio: due settimane non bastano a rivelare e contenere nel modo più agevole l’eventuale aumento dei contagi. All’inizio il Consiglio federale aveva previsto per l’11 maggio la sola riapertura di scuole e negozi, poi si sono aggiunti i ristoranti. A questo punto occorre ulteriore prudenza, perché siamo riusciti a frenare l’evoluzione dell’epidemia, ma il virus è ancora là fuori. 

Secondo molti esperti, per una riapertura ordinata è fondamentale il potenziamento dei test e il tracciamento dei contatti.

Attualmente i tamponi effettuati giornalmente sono 350, ma i laboratori attivi nel Cantone hanno potenzialità per aumentarli ancora. Applicheremo le indicazioni federali che da fine aprile raccomandano di effettuarli anche a chi ha sintomi lievi. L'Ufficio del medico cantonale ha riattivato l’apparato per il tracciamento dei contatti, fattibile solo se i casi giornalieri restano contenuti. È già operativo e sarà a pieno regime dalla prossima settimana. Nel frattempo è iniziata l’indagine tramite test sierologico su 1'500 individui statisticamente rappresentativi della popolazione. Con un semplice ‘pic’ del sangue da un dito, effettuato quattro volte nel corso di dodici mesi, potremo farci un’idea sulla diffusione del virus. Questo per studiare anche se, e quanto, gli anticorpi ci proteggono dal virus.

Quali saranno i costi sanitari della crisi? Dobbiamo aspettarci un’impennata in sussidi e premi di cassa malati?

I sussidi dipendono dall’evoluzione dei premi e dalla situazione del singolo assicurato. Su quest’ultima peserà il peggioramento del contesto economico. Sul tema dei premi si sente dire tutto e il contrario di tutto, ed è prematuro fare ipotesi troppo nette. Da una parte, il blocco alle attività mediche non urgenti fino al 27 aprile ha ridotto di molto l’attività e quindi l’ammontare delle prestazioni. Dall’altro, la revoca del divieto provocherà inevitabilmente un certo recupero di terapie ed interventi rimasti sospesi. A preoccupare è anche la situazione di un mondo della sanità – studi medici, fisioterapisti, aziende dell’indotto… – che ha vissuto una contrazione delle sue attività anche dell’80-90%.

Si rischia una crisi del sistema?

È un problema anzitutto di salute pubblica, perché il rischio è che per paura del contagio i cittadini non si prendano cura della loro salute: pensiamo alla preoccupante diminuzione nelle notifiche di ictus e infarti, e al rinvio di visite da parte di pazienti con malattie croniche. In secondo luogo, è anche inevitabilmente un problema economico: gli ospedali stessi hanno subito un duro colpo col calo delle attività ordinarie.

Li avete aiutati?

Come Cantone, per il secondo trimestre ci siamo premurati di aumentare del 10% i fondi versati al sistema ospedaliero come da contratto di prestazione, per evitare che le strutture si ritrovassero con problemi di liquidità e dovessero lasciare a casa personale.

Sono emerse anche alcune ruggini tra pubblico e privato: appelli critici nei confronti dello Stato maggiore di condotta, contestazioni alla conversione di alcune strutture per far fronte all’emergenza…

Penso che qualche critica e dissapore sia inevitabile in una situazione del genere. Ma in generale ho notato un grande spirito di collaborazione, che ha permesso una conversione immediata ed efficace di alcune strutture in ospedali e reparti Covid. Ricordiamoci che prima della crisi c'era una cinquantina di postazioni di cure intense per tutto il Ticino: nella fase più acuta della crisi ne avevamo circa 100 solo per i malati di coronavirus, più una trentina per le altre emergenze.

La metà delle morti per coronavirus è avvenuta in casa anziani. È opportuno parlare di “fortuna”, come ha fatto il medico cantonale Giorgio Merlani, o degli errori ci sono stati?

Mi permetta prima di rivolgere un pensiero di vicinanza a chi ha perso una persona cara e al personale curante. Purtroppo questa alta percentuale di decessi in casa anziani è una situazione riscontrata in tanti Paesi. L’Ufficio del medico cantonale ha seguito da vicino la situazione, fornendo supporto spesso direttamente anche in loco. Nelle due strutture nelle quali è giunto a intimare anche alcuni provvedimenti, ne ha poi riscontrato l’adeguata applicazione. Naturalmente continueremo a seguire l’evoluzione epidemiologica e a vigilare: è importante ricostruire e comprendere le modalità di diffusione del contagio in alcune strutture anche per maturare esperienza per il futuro e adottare eventuali correttivi.

Non c’è il rischio di un conflitto tra l’Ufficio del medico cantonale – che scrive i regolamenti – e l’autorità di vigilanza, che deve farli rispettare e fa capo allo stesso ufficio?

È frequente che l’autorità che emana direttive sia poi anche preposta alla verifica del loro rispetto. È importante che vi sia un dialogo continuo tra tutti gli attori, perché le stesse misure di sicurezza sono evolute durante la pandemia e con l’aumento delle conoscenze scientifiche in materia di coronavirus: si pensi che il documento di Adicasi (l'Associazione dei direttori delle case per anziani della svizzera italiana, ndr) che riassume le direttive e le raccomandazioni per combattere il Covid-19 nelle case per anziani è passato da quattro a oltre venti pagine.

Ieri il responsabile del presidio Coronavirus per l’Ufficio federale di sanità pubblica, Daniel Koch, ha detto che si sta pensando di allentare le misure di isolamento anche per chi è in casa anziani. Succederà anche in Ticino?

La decisione di proibire le visite è stata molto sofferta. Conosciamo bene – e questa emergenza ce l’ha ulteriormente insegnato – l’importanza dei contatti umani: già oggi alcune strutture si adoperano per permettere visite con separazioni in vetro o plexiglas, e si stanno studiando altre formule per giardini e ambienti esterni. Non appena sarà possibile, allenteremo le misure di sicurezza. Ma dobbiamo ancora essere molto prudenti.

Cosa ci ha insegnato l’emergenza sanitaria?

Abbiamo visto in particolare quanto sia importante un certo grado di autosufficienza, sia sul piano del personale medico che su quello degli approvvigionamenti di farmaci e materiale sanitario. In futuro bisognerà evitare che un paese leader nel settore farmaceutico si trovi a corto di reagenti, ovviamente, ma dobbiamo anche garantire la formazione di più personale sanitario residente sul territorio. Per ragioni di salute pubblica, di sostenibilità, di responsabilità sociale, ambientale ed economica, non di facile sovranismo.

C’è il problema di formare il personale sanitario, e poi c’è quello di convincerlo a proseguire in carriere che conoscono – è il caso degli infermieri – un tasso di abbandono del 50%.

Oggi formiamo già 200 infermieri ogni anno in Ticino, contro i 100 di qualche anno fa. Un ottimo risultato dovuto agli sforzi congiunti fra datori di lavoro, settore della formazione, Decs e Dss. Ma possiamo fare meglio: già prima della crisi ci stavamo coordinando col collega Manuele Bertoli proprio per riuscire a potenziare ulteriormente la formazione verso professioni che sono stimolanti, ben remunerate e non conoscono crisi nell’impiego. Ora il tema sarà trattato dal gruppo di riflessione per il rilancio, sarà una delle sfide strutturali da affrontare a medio termine. Così come sarà opportuno trovare soluzioni che permettano al personale sanitario e sociosanitario – in prevalenza femminile – di conciliare lavoro, famiglia e vita sociale, in modo da limitare l’elevato tasso di abbandono e allungare la durata di permanenza nella professione.