Tutti hanno seguito il suo processo nel settembre del 2017, ma non tutti hanno letto il suo memorandum, in cui questa donna racconta ciò che ha visto
Il mese d’agosto di tre anni fa, quando vidi le tende dei rifugiati eritrei, somali, etiopi accampati tra gli alberi sotto la stazione ferroviaria di Como, pensai a Lisa Bosia, che sapevo impegnata nell’aiuto agli sventurati. Ho ancora in mente il viso di quei ragazzi, la loro disperata allegria, i panni stesi ad asciugare sui rami degli alberi, le scarpe abbandonate tra l’erba. E l’angoscia scritta sul loro viso, a raccontare storie di sofferenze e di speranze svanite.
Sulla strada accanto alla stazione un giorno passarono le teste rasate dei razzisti comaschi con striscioni, bandiere e fumogeni tricolori. Sfilarono accanto a una scultura che inalbera due gigantesche mani di bronzo, una alzata, l’altra piegata al suolo. Quest’ultima mi sembrò l’emblema della sconfitta per quei fuggiaschi; e pensai che essere con Lisa vuol dire tentare di aprirsi, avere empatia, saper dare una mano a chi soffre. Vuol dire saper identificarsi con loro, non essere ciechi e indifferenti, essere sensibili al male del prossimo. Saper immaginare com’è la vita di qualcuno diverso da noi: sfortunato affamato perseguitato braccato minacciato abbandonato traumatizzato. Vuol dire avere il coraggio di uscire dal recinto del proprio egoismo per mettersi nella pelle degli altri.
Tutti hanno seguito il processo di Lisa Bosia nel settembre del 2017, ma non tutti hanno letto il suo memorandum, in cui questa donna racconta ciò che ha visto: profughi reduci da esperienze inenarrabili, donne violentate, minori respinti. Per fare un solo esempio, preso da questo documento: una famiglia afghana composta di madre sola con sette figli, il più piccolo di due anni, che avrebbero dovuto esser rimandati in Italia. Lisa ricorda gli scarponi della polizia dentro casa, lei che grida per terra mentre il figlio maggiore si taglia i polsi dopo essersi chiuso in bagno; e lei, Lisa, tiene quella madre tra le braccia, mentre la polizia sfonda la porta. È solo uno dei casi che hanno segnato la vita della “pasionaria ticinese dei rifugiati”, la quale si è proposta di agire nel solco della grande tradizione umanitaria elvetica ed è stata condannata. Condannata per aver tentato di essere umana.
In vista del processo d’appello, bisognerebbe riflettere sul fatto che, per ossequiare un principio superiore, è legittimo trasgredire le leggi. Lisa ha voluto disubbidire come fece in passato, nel nostro cantone, il pastore Guido Rivoir, che adesso è nel giardino dei Giusti sul lungolago di Lugano, insieme ad altri che hanno aiutato perseguitati politici di tutto il mondo. Perché disubbidire si può, quando si è in presenza della disumanità. E, per questo, basta aver amor proprio. Per voler bene agli altri bisogna, prima di tutto, voler bene a sé stessi. E provare il sentimento della compassione: un sacrificio che l’uomo fa del proprio egoismo. Scrive Antonio Prete, citando Leopardi: “In genere dinanzi al dolore altrui l’uomo tende a fuggire. Se invece, nonostante la sventura, egli si fa prossimo all’altro, cogliendo nel suo dolore la virtù, fino a compassionarlo, cioè a voler coll’animo entrare a parte de’ suoi mali”, allora egli appare “a sé stesso straordinariamente magnanimo, singolare, eroico, più che uomo, poiché può non esser egoista e impegnarsi seco medesimo per altri che per sé stesso”.
Una stretta di mano, dunque, a Lisa Bosia Mirra, donna coraggiosa e generosa che ha saputo darsi agli altri.