Un sorriso più mediterraneo che nordico, e un carico di positività che non ha mai preteso nulla in cambio. Per dirla coi bresciani, 'a gratis'
Confutare è dovere che attiene alla categoria del giornalista. E Nadia Toffa, ben prima delle sue inchieste, aveva messo in seria discussione la presunta granitica riservatezza del bresciano, che si vuole ritroso, scontroso, scostante. Malmustùs, come si dice da quelle parti. Forse anche per questo la sua morte, giunta oggi con tempi tutt’altro che televisivi, si è portata via una gioia di vivere e un sorriso più mediterranei che nordici, un carico di positività che è sempre sembrato non pretendere mai nulla in cambio. Per dirla alla bresciana, quella gioia e quel sorriso (contagiosi) erano entrambi ‘a gratis’.
Ovunque si voglia collocare quel tipo di giornalismo improponibile a queste latitudini, ma che ha cavato ragni e ragnetti dal buco alla politica (che sul carro delle Iene c’è salita all’occorrenza, e all’occorrenza è scesa), Toffa è stata sì Iena, ma mai sciacallo. E cioè, che si trattasse di medicine alternative, disastri ambientali, dottori e dottoresse miracolosi (l’esilarante battaglia con Gabriella Mereu ebbe echi anche ticinesi), se proprio c’era da correr dietro al malfattore di turno, era sempre un malfattore coi fiocchi e non l’ultimo dei pirla.
Bucava lo schermo, Nadia Toffa, compresa quell’inflessione marcatamente locale che è un marchio di fabbrica, nel popolarmente noto che va da Evaristo Beccalossi fino ad Aldo Busi. Televisivamente vincente non perché sex-symbol, ma perché bella nella più omnicomprensiva delle accezioni femminili, la malattia giunta nel momento della piena consacrazione a cambiarle il futuro e una carriera in cui il meglio doveva ancora venire, più che il volere del destino, pare la decisione di un sadico. Nel dicembre del 2017, alle prime avvisaglie del male, dalla tv se n’era andata che dimostrava vent’anni in meno dei suoi quaranta; era tornata con quelli che aveva, perché il dolore ti cambia la forma e i connotati. L’innaturale gestualità dell'ultima apparizione diceva tutto; o forse niente, perché il male era già pubblico sui social e dentro un libro intitolato ‘Fiorire d’inverno’. Un male condiviso, discusso, concesso, per trovare e dare forza. Lei lo aveva chiamato “il bastardo”, ma anche “un dono, un’occasione”, e quella forma pubblica della malattia, comune a tanti e utile ad altrettanti, evidentemente fece paura. Accuse di esibizionismo, strumentalizzazione, monetizzazione del male piovvero in rete come la forma epidemica di una Sindrome di Münchhausen, sottocategoria dei leoni da tastiera che fingerebbero tumori per meritarsi un pubblico che non hanno.
Il pubblico sano ora piange la Iena come pianse Fabrizio Frizzi un anno fa, così come si piangerebbero un parente stretto, un amico fedele o una persona che è di casa, per quel fenomeno che non è isterismo collettivo, ma la legge delle brave persone applicata al mezzo televisivo. Il minore dei mali, nel peggiore dei giorni, nella non migliore delle epoche.