laR+ Inchieste e approfondimenti

‘Altolà, tira fuori i documenti!’

A Chiasso per anni Manuel ha subito ripetuti controlli di polizia per il colore della sua pelle. Si chiama profilazione razziale e riguarda pure il Ticino

In sintesi:
  • Il culmine una domenica notte con quella che definisce la più grande ingiustizia mai vissuta
  • La giurista di Amnesty: ‘Pratiche discriminatorie non affrontate dalle autorità e che persistono’
  • La Polizia cantonale: ‘Ci basiamo su elementi oggettivi di sospetto’
Anche un particolare accento può essere motivo di sospetto, come mostra questo estratto di verbale relativo all’interrogatorio di un agente dopo un controllo della circolazione
(Ti-Press/laRegione)
20 luglio 2024
|

Le manette a un polso rotto, il trasporto in dogana, l’intimazione di spogliarsi, una serie di controlli e di interminabili domande, e dopo quattro ore il rilascio senza nessuna scusa. Il tutto per il solo fatto di essere un uomo con la pelle scura che camminava in un bosco. Quella che Manuel (nome vero noto alla redazione), cittadino svizzero nato a Santo Domingo, definisce «la peggiore situazione mai vissuta» è accaduta quando aveva 24 anni e abitava a Chiasso. Era abituato a subire frequenti controlli da parte della polizia – ci racconta – ma non aveva mai provato un senso di ingiustizia così grande.

‘Mi accusavano di essere un passatore’

«Era il periodo in cui stavo iniziando a soffrire di insonnia e quella domenica, verso le undici e mezza, ho deciso di andare a fare una passeggiata nel Parco del Penz. Sulla via del ritorno, uscendo dal bosco, mi sono trovato davanti una pattuglia della polizia e gli agenti, appena mi hanno visto, mi sono venuti incontro e mi hanno ammanettato». Manuel era stato operato da poco al polso destro: «Avevo un ferro all’interno e all’esterno una benda ben visibile – spiega –. Ho detto ai poliziotti che le manette mi facevano molto male, gli ho chiesto di togliermele, ma loro sono rimasti impassibili. Mi hanno fatto salire sull’auto e mi hanno portato al posto di comando». Il sospetto era che fosse un passatore. «Mi accusavano di aver fatto entrare in Ticino dei richiedenti l’asilo provenienti dall’Africa, ma io quelle persone non le avevo nemmeno mai viste». Manuel ha provato a più riprese a chiedere ai poliziotti che lo hanno trattenuto di fornirgli nome e cognome, ma nessuno si è identificato in alcun modo. Una volta persuasi che non aveva fatto nulla di illegale, gli hanno chiesto di firmare il rapporto dicendogli che glielo avrebbero mandato per posta, «ma non mi è mai arrivato nulla». Il giorno dopo Manuel è andato in Comune a Chiasso per raccontare l’accaduto: «In quel momento ero in assistenza e ho esposto tutta la vicenda alla persona che mi seguiva. Volevo fare denuncia, ma mi è stato detto che dovevo stare calmo, benché lo fossi, di andare a casa, riposare, pensarci bene. E così non ho fatto niente».

‘Succedeva quasi sempre tra la gente’

Da qualche tempo a questa parte Manuel abita a Lugano, dove la frequenza dei controlli è diminuita, anche se non cessata. Quando viveva a Chiasso veniva fermato mediamente ogni paio di mesi. «Succedeva soprattutto sui treni, ma anche in stazione e all’uscita di casa», dice. «Io non ho mai avuto nulla da nascondere, ma quei controlli mi hanno sempre dato molto fastidio soprattutto perché avvenivano quasi sempre in mezzo alla gente». In particolare sul treno gli è successo più volte di essere l’unico dei presenti ad attirare l’attenzione dei poliziotti: «Mi chiedevano i documenti, mi aprivano lo zaino, tiravano fuori il contenuto di fronte a tutti. Mi domandavano con tono talvolta arrogante dove ero diretto, da dove venivo. Più volte è successo mentre stavo andando o tornando dal lavoro all’Osc di Mendrisio, l’Organizzazione sociopsichiatrica cantonale».

A Manuel è capitato di provare anche parecchia rabbia, afferma, «ma poi ho capito che era meglio essere più collaborativo. In alcune occasioni ho chiesto il motivo delle perquisizioni e la risposta era che si trattava di un normale controllo di routine. Mi dicevano che se tutto fosse risultato in regola me ne sarei potuto andare presto». Intorno in molti si mostravano indifferenti, mentre altri tenevano gli occhi puntati sulla scena. «Solo una volta una ragazza, anche lei di colore, ha reagito dicendo ai poliziotti in tono seccato: “Perché controllate solo lui in un treno pieno di gente, vi pare giusto?” È stato l’unico momento in cui una persona sconosciuta ha provato a difendermi», evidenzia, e commenta amareggiato: «Essere costantemente trattato da presunto criminale per il colore della propria pelle è una sensazione davvero brutta».

Dialetto e ‘figlio di’: dei lasciapassare

Quando una persona è controllata da agenti di polizia, di sicurezza o da guardie di confine non in base a sospetti concreti, ma per le sue caratteristiche manifeste – soprattutto il colore della pelle – riconducibili a determinate origini etniche o fedi religiose (reali o ipotetiche) si parla di “profilazione razziale”. E Manuel non è l’unico a subirla.

«Ricordo ancora bene la sofferenza di un ragazzo che seguivo da vicino quando ero responsabile di una struttura per giovani con problemi psichiatrici a Massagno. Era il figlio di un giocatore di calcio di serie A di origini africane che la sera tardi veniva regolarmente fermato dalla polizia». A raccontarlo è Willy Lubrini, ex operatore sociopsichiatrico e coordinatore dell’associazione Mendrisiotto Regione Aperta. «Abitava da diversi anni nel Luganese – prosegue – e a un certo punto ha iniziato a rispondere agli agenti in dialetto dicendo che era “il figlio di”. A quel punto loro cambiavano subito atteggiamento e lo lasciavano andare. Lui però viveva malissimo quelle situazioni». Il ragazzo, spiega Lubrini, «si sentiva discriminato pur essendo cresciuto nella regione e si rendeva conto che il trattamento sarebbe stato ben peggiore se suo padre non fosse stato un calciatore famoso».

Richiedenti l’asilo più vulnerabili

Ai piedi della piramide delle vittime di profilazione razziale si trova una categoria altamente vulnerabile, ovvero quella delle persone inserite nel sistema di asilo, rileva Lubrini, che di loro si occupa con l’associazione nata un anno fa allo scopo di migliorare la coesione sociale nella regione per favorire il senso di appartenenza alla comunità e l’interazione tra tutte le persone. «Chi è già fragile per il proprio curriculum si sente molto più in balìa del potere – argomenta –. Le persone richiedenti l’asilo hanno spesso storie molto difficili alle spalle e in aggiunta vivono una condizione di privazione della libertà di movimento, devono stare chiuse svariate ore nei centri d’asilo e il loro futuro dipende totalmente dal giudizio di altre persone. Si sentono costantemente osservate, e i continui controlli che devono subire portano a scalfire il senso di sicurezza che speravano di trovare in una nazione come la nostra, ma che in realtà per loro è molto scarso». Per Lubrini tale accanimento è anche «un messaggio molto negativo, che va a minare il principio dell’uguaglianza dei diritti. Queste persone vengono controllate senza motivo e in modo sproporzionato in mezzo alle altre, rafforzando il pregiudizio che nascondano qualcosa». Insomma, «è un segnale razzista». Senza contare, aggiunge l’ex operatore sociopsichiatrico, «che in diversi casi gli agenti si approcciano alle minoranze con un linguaggio non rispettoso, come se fossero sempre nel torto».

Per il coordinatore di Mendrisiotto Regione Aperta «la diversità non deve essere concepita come un pericolo, ma come una fonte di arricchimento. Sono affermazioni che possono suonare banali, ma siamo in una situazione in cui bisogna continuare a ribadire la necessità di rispettare i concetti di uguaglianza di trattamento, preservazione della sfera privata, proporzionalità degli interventi perché sono alla base di una società democratica», dice Lubrini, specificando che l’associazione che coordina non ha ancora approfondito il tema, ma non esclude di farlo in futuro. «Certo è che la questione va monitorata».

La giurista di Amnesty

‘Pratiche discriminatorie esistenti e persistenti’

«Secondo un crescente numero di rapporti di organismi internazionali per i diritti umani, organizzazioni della società civile, esperti scientifici e la rete per le vittime del razzismo, le persone percepite come straniere sono ripetutamente fermate e perquisite senza motivi ragionevoli e oggettivi anche in Europa. E il nostro Paese non fa eccezione». A sostenerlo è Alicia Giraudel, giurista ed esperta di asilo di Amnesty International Svizzera, che spiega: «Nel 2007, Amnesty ha pubblicato per la prima volta un rapporto sulle pratiche di polizia nella Confederazione, dimostrando che alcuni agenti presentavano atteggiamenti razzisti nei confronti delle persone di origine straniera, effettiva o presunta, sottoposte a controlli d’identità. Fino a questo momento tali questioni non sono state affrontate dalle autorità e le pratiche discriminatorie persistono», commenta Giraudel, secondo cui «tutti dicono che non sono razzisti e quasi nessuno è pronto a mettersi in discussione. Mentre le rare volte in cui le autorità e gli agenti di polizia ammettono casi di profilazione razziale li considerano il risultato di una cattiva condotta individuale di singoli agenti, non riconoscendo la pratica come il problema istituzionale che rappresenta».

Uno dei fattori alla base di questa situazione, spiega Giraudel, è l’assenza di statistiche sul fenomeno: «A causa della mancanza di un sistema di monitoraggio uniforme che fornisce dati disaggregati, si sa troppo poco sulla portata della profilazione razziale in Svizzera. Le autorità si rifiutano di registrare le informazioni relative ai controlli con la scusa che si tratterebbe di dati sensibili». Nel rapporto sul razzismo relativo al 2023 della Rete di consulenza per le vittime di razzismo sono stati censiti e analizzati 876 casi di discriminazione razziale, 168 in più rispetto all’anno precedente; 58 di questi sono stati a opera della polizia. «Queste segnalazioni sono però solo la punta dell’iceberg», afferma la giurista di Amnesty.

Muro di ostacoli per accedere alla giustizia

A rendere il quadro ancora più fosco è il fatto che l’accesso alla giustizia per le vittime di violazioni dei diritti umani compiute dalla polizia è spesso «enormemente difficoltoso in quanto ostacolato dalla mancanza di informazioni, dalla lunghezza e dai costi finanziari proibitivi dei procedimenti penali e amministrativi, dalla loro natura psicologicamente stressante, dal rischio di ulteriori discriminazioni e dalla situazione di vulnerabilità dei cittadini stranieri privi di status giuridico – dice Giraudel –. Inoltre, la polizia spesso risponde con controaccuse e controdenunce per violenza e minacce contro gli agenti o per reati simili».

Grande portata assume in tale contesto il caso di Mohamed Wa Baile. La Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) lo scorso febbraio ha condannato la Svizzera per discriminazione razziale accogliendo il ricorso dell’uomo svizzero di origini keniane che era stato multato per essersi rifiutato di sottoporsi a un controllo di identità alla stazione di Zurigo, mentre si stava recando al lavoro presso il Politecnico, in quanto riteneva di essere stato vittima di profilazione razziale. «Una sentenza chiave – secondo Giraudel, che ha seguito in prima persona il caso contribuendo al suo successo – in quanto è la prima volta che viene riconosciuto a livello sostanziale il divieto di controlli d’identità discriminatori».


Keystone
In febbraio la Svizzera è stata condannata per discriminazione razziale dalla Cedu, che ha accolto il ricorso di Wa Baile (nella foto) fermato dalla polizia in stazione a Zurigo

I possibili rimedi

Oltre alla raccolta dati, dice Giraudel, a livello di interventi per scongiurare la profilazione razziale «come Amnesty raccomandiamo l’adozione di una legislazione che vieti l’uso della pratica e introduca uno standard di “ragionevole sospetto” nelle attività di applicazione della legge. Adesso in Svizzera il Codice di procedura penale stabilisce che si può controllare qualcuno quando sussiste un vago sospetto. Stabilire invece ragionevoli motivi basati su fatti oggettivamente verificabili come elementi determinanti per un fermo è una misura indispensabile per prevenire arresti, perquisizioni, controlli d’identità e di veicoli arbitrari e potenzialmente discriminatori». Per la giurista è anche fondamentale implementare la formazione degli agenti di polizia e renderli attenti sulla natura dannosa della profilazione razziale, ma ancora di più fornire loro chiare indicazioni nella pratica su come comportarsi. Un’ulteriore richiesta dell’organizzazione è quella di un meccanismo indipendente di reclamo e di indagine in materia di razzismo: «Finora solo alcuni Cantoni e Città hanno istituito uffici di ombudsman che ricevono reclami relativi a episodi di profilazione razziale, mentre il governo federale si rifiuta di creare un simile meccanismo nazionale», lamenta.

Sofferenza, diffidenza, inefficienza

Le conseguenze della profilazione razziale sono molteplici. «La natura pubblica della perquisizione suscita sentimenti di umiliazione, imbarazzo e talvolta anche di paura nella vittima – evidenzia Giraudel –. Queste pratiche possono inoltre costituire un affronto alla dignità umana ed equivalere a una violazione del diritto di essere liberi da trattamenti degradanti. In aggiunta, le persone che subiscono discriminazioni, intimidazioni o violenze a causa delle proprie caratteristiche, quando hanno un background migratorio si sentono meno legate al nuovo Paese e in generale mostrano livelli più bassi di fiducia nelle istituzioni di polizia e giudiziarie a cui eviteranno il più possibile di rivolgersi. Di riflesso, la pratica può anche ostacolare l’efficacia della polizia». Il fatto che gli agenti la applichino spesso in pubblico può anche avere come effetto che le persone che vi assistono, non sapendo che chi è controllato è innocente, si sentano confermate nei loro pregiudizi. La giurista racconta però anche di persone che hanno visto queste scene e hanno provato molto disagio perché non sono state in grado di reagire di fronte all’ingiustizia. In circostanze del genere il consiglio di Giraudel è di «chiedere alla vittima se ha bisogno di aiuto e mettersi a disposizione come testimone nel caso voglia rivolgersi alla giustizia».

E la maggioranza di stranieri in prigione?

Quanto al “giustificare” la profilazione razziale con l’argomentazione che la maggior parte dei criminali in carcere è straniera, Giraudel afferma che da un lato, «a parità di reati, gli stranieri sono più spesso messi in carcerazione preventiva rispetto agli svizzeri per il maggior rischio di fuga». Dall’altro invece «è logico che più persone con determinate caratteristiche si controllano, più riscontri di reati si trovano in tale categoria. Se si perquisiscono 10 persone bianche e 100 nere, è dieci volte più probabile trovare irregolarità nel secondo gruppo. Il problema è che così facendo ci si concentra solo su certe categorie, col rischio di perdere opportunità di scovare reati magari ben più gravi altrove», evidenzia la giurista. Insomma, anche per questo motivo la profilazione razziale rende meno efficace la polizia nel proteggere la popolazione dai crimini.

La Polizia cantonale

‘Ci basiamo su elementi oggettivi di sospetto’

Sul tema abbiamo interpellato il capo area della Gendarmeria della Polizia cantonale, maggiore Marco Zambetti, che premette: «I controlli sui treni vengono effettuati dalla Polizia dei trasporti o dai collaboratori dell’Ufficio federale della dogana e della sicurezza dei confini. Da parte nostra ci esprimiamo unicamente su fattispecie che vedono coinvolti agenti della Polizia cantonale».

In Ticino, come altrove in Svizzera, persone con la pelle scura vengono controllate e perquisite dalla polizia molto più spesso delle altre, come segnalano loro stesse e le Associazioni in difesa dei diritti umani. Con quali criteri vengono condotti tali controlli: sempre per sospetti oggettivi riconducibili al coinvolgimento in un reato o anche seguendo sensazioni o intuizioni? Il colore della pelle o l’appartenenza a un determinato gruppo etnico può essere un fattore determinante?

La Polizia cantonale controlla le persone in base a quelli che sono degli elementi oggettivi di sospetto, vuoi per peculiarità delle persone oppure in base al luogo, all’ora o ad altre circostanze nelle quali esse si trovano. Se, per esempio, in una particolare zona determiniamo, basandoci su elementi di inchiesta, che vi sono episodi di spaccio di sostanze stupefacenti o furti in abitazioni o anche nei veicoli effettuati da persone di una determinata provenienza, forzatamente dobbiamo controllare principalmente persone che corrispondono a questo profilo. In altri casi gli elementi che definiscono un profilo ipoteticamente sospetto sono diversi, quali l’età, l’altezza, l’accento o l’abbigliamento, ad esempio in caso di ricerca di rapinatori.

Quindi è prassi fare domande alle persone fermate col solo scopo di sentire se hanno origini straniere? In un verbale di cui disponiamo una copia (v. foto), relativo a un controllo della circolazione, è stato chiesto al guidatore di carnagione chiara dove stesse andando, e di fronte alla sua alterazione l’agente ha detto: “È una domanda che facciamo sempre, in particolare per sentire come parla la persona, se ha accenti particolari”. Ci sono accenti che vi insospettiscono di più?

Come detto in determinati casi, come ad esempio per i furti con scasso in abitazioni dove un modus operandi più volte constatato ha visto utilizzare da persone straniere residenti all’estero vetture a noleggio con targhe ticinesi per spostarsi sul territorio per compiere reati, anche l’accento può essere un elemento da tenere in considerazione poiché definisce un profilo ipoteticamente sospetto.

Da quanto riferitoci, spesso i poliziotti si rivolgono in modo molto più colloquiale alle persone appartenenti a una minoranza, dando loro del tu, impartendo ordini in maniera perentoria e talvolta sgarbata, con commenti paternalistici. È perché c’è una diffidenza verso queste persone a prescindere?

I controlli devono essere effettuati in maniera educata e cortese cercando di stabilire il miglior contatto con l’interlocutore. Questo vale per qualsiasi tipo di persona. Nonostante a livello formativo venga indicato come sia buona norma utilizzare la forma del “lei” nelle conversazioni con l’utenza, sul terreno, forse anche per il fatto che vi sono molti agenti giovani della generazione Z, il “tu” viene a torto utilizzato con più disinvoltura.

Esistono dei corsi, o altre misure messe in campo all’interno dei corpi di polizia in Ticino, per scongiurare il rischio di profilazione razziale? Quanto tempo, rispetto al monte ore totale, è dedicato al tema dei diritti umani nella formazione degli agenti? Si intende implementare tali corsi o la situazione va bene così?

La Polizia cantonale ticinese ha sempre dato rilevanza a queste tematiche. Questa attenzione è ulteriormente stata amplificata dal 2020 grazie al piano di formazione di polizia armonizzato a livello nazionale, il quale prevede che le scuole di polizia riconosciute a livello svizzero dedichino una forchetta di 30-40 ore alla tematica “Rispettare l’etica professionale e i diritti umani”. A comprova della rilevanza di questi aspetti per il Corpo va sottolineato che lo stesso Comandante eroga personalmente una parte delle lezioni di etica e deontologia di Polizia. Nella formazione di base viene inoltre dato ampio spazio al tema dell’interculturalità. In quest’ambito giova evidenziare che nel corso delle lezioni di interculturalità (circa 20 ore) per la Scuola di polizia 2023, grazie anche alla collaborazione del Servizio per l’integrazione degli stranieri, si sono potuti integrare due momenti formativi co-gestiti con il Centro per la prevenzione delle discriminazioni. Oltre alle lezioni durante la formazione di base, tutto il Corpo, nell’ambito di una formazione che verte sulla prevenzione dei fenomeni legati all’estremismo e alla radicalizzazione, ha seguito seminari di sensibilizzazione sul tema tenuti da professionisti dell’interculturalità.

Dalla testimonianza che apre questo approfondimento risulta che diversi agenti che hanno eseguito controlli e perquisizioni si sono rifiutati di identificarsi: esiste un obbligo in tal senso per consentire una eventuale denuncia per discriminazione?

Gli agenti sono chiamati a fornire perlomeno il loro numero di matricola. Numero che, se del caso, può essere utilizzato per un eventuale reclamo al Comando o altre azioni.

Associazioni per la tutela dei diritti umani criticano il fatto che anche in casi eclatanti di discriminazione razziale sia quasi impossibile giungere alla condanna dei poliziotti coinvolti, tra gli altri motivi a causa di un forte spirito corporativo degli agenti che porta a far quadrato intorno ai colleghi. Si parla anche di controdenunce intimidatorie e insabbiamenti. Quali sono le sue valutazioni in merito?

Come per molte categorie professionali, anche all’interno dei Corpi di polizia vi è sicuramente solidarietà tra colleghi, che però non deve sconfinare in comportamenti eticamente non corretti.

Secondo Amnesty International Svizzera, le volte in cui le autorità ammettono casi di profilazione razziale li considerano il risultato di una cattiva condotta individuale di singoli agenti di polizia e non li riconoscono come un problema istituzionale. Insomma, ci sarebbe una incapacità di rendersi conto del problema strutturale per affrontarlo. Cosa ne pensa?

Come Polizia cantonale ticinese siamo consapevoli dei rischi e per contenerli puntiamo in primo luogo sulla formazione di base e sulla formazione continua. Quest’ultima è uno dei tasselli che permette al personale di rimanere al passo con i tempi in svariate tematiche, anche quelle legate all’evoluzione della società. In quest’ambito il Ticino è sempre stato all’avanguardia e ha potuto fungere anche da ispiratore per corsi che ora vengono offerti a livello nazionale sotto l’egida dell’Istituto svizzero di polizia. In secondo luogo e in presenza di un abuso, ovviamente ricorreremmo anche a procedure amministrative e/o penali nei confronti di chi sbaglia. Voglio però sottolineare ancora che nella maggior parte dei casi in realtà i controlli sono legati a sospetti o situazioni concrete. In conclusione vorrei ricordare il disagio vissuto dagli agenti a seguito di una crescente insofferenza nei loro confronti nonché per le attività che svolgono quotidianamente e che spesso si manifesta tramite insulti, minacce e aggressioni. Evoluzione preoccupante che negli anni è stata più volte ribadita anche dalle associazioni che tutelano il personale di polizia, sia a livello cantonale che nazionale.


Ti-Press/laRegione
Anche un particolare accento può essere motivo di sospetto, come mostra questo estratto di verbale relativo all’interrogatorio di un agente dopo un controllo della circolazione