(Un ricordo di Luigi Snozzi a un anno dalla scomparsa, 29.12.2020 - 29.12.2021)
È stato un lungo cammino durato trent’anni. Ricordo le lunghe giornate di pesca sul mare di Sardegna. Io, che una volta vivevo sugli alberi, come Cosimo Piovasco di Rondò, al timone, tu alle canne, le tue meravigliose canne da traina con il tamburo placcato in oro (salute e denari al nostro professore di pesca Dario Loi!). Sulla barca non si parlava. Un po’ per non insospettire i pesci, un po’ perché ci sono delle persone (e tu eri una di queste) per le quali la pesca rappresenta uno spazio-tempo privilegiato nel quale rifugiarsi, lontano dal clamore fastidioso del mondo.
Ricordo i viaggi in macchina. Anche in macchina non si parlava perché tu eri troppo concentrato nella guida. Guidavi sempre tu. Io guidavo solo quando ti ritiravano la patente. Undici volte te l’hanno ritirata, sempre per eccesso di velocità. Ricordo un viaggio da Losanna a Locarno in poco più di tre ore, il tachimetro fisso sui 200. O sulla strada che da Sassari conduce a Porto Torres (la basilica romanica di San Gavino a doppia abside) una lunghissima tirata, tutta dritta e in discesa su una Fiat Panda un po’ malandata a 170 all’ora. Non serviva a nulla urlarti di togliere quel tuo piedone dal gas. Non sentivi, eri come in trance.
Bisogna pur dirlo: tu, alle volte, potevi anche essere un gran “hijo de puta” (come tutti, né più né meno) e con te ci si poteva anche incazzare di brutto. Ma poi era facile tornare subito alle cose serie, alle cose importanti, condivise, al lavoro, al ragionamento attorno ai progetti. I tuoi argomenti (le tue armi affilate) sono sempre stati i progetti di architettura. Tu non hai mai contribuito ad alimentare le chiacchiere.
Ti definivi un Don Chisciotte per via delle tante sconfitte, ma non erano mulini a vento quelli contro cui combattevi, erano persone in carne ed ossa, avevano nome e cognome, architetti e politici tronfi e arroganti. Penso ai tuoi progetti-guerrilla, come li aveva definiti Kenneth Frampton (“ruggisce il leone al deserto infuriante” ha scritto Wallace Stevens, ti si addice perfettamente). Mi chiedo: saprà qualcuno raccogliere la sfida? Si salverà qualcosa del tuo insegnamento negli anni a venire? Temo che sarà per te come per Adolf Loos: “Ins Leere gesprochen”.
Sento attorno sussurrare che tu hai costruito poco. Ma tu non hai mai inteso il “costruire” nel suo significato riduttivo di “aedificare”, non sei mai stato ossessionato dalla “frenesia aedificatoria” come tanti tuoi colleghi (uno in particolare). Per te il “costruire” (cum-struere) è sempre stato associato al concetto di “abitare”. Abitare questa Terra (il pianeta azzurro vagante nello spazio). Abitare nel senso heideggeriano di “avere cura” (i mortali “abitano” in quanto salvano la Terra). Tu, picassiano, mi ricordavi Giacometti. Per il tuo modo di esprimerti in francese: identico. Per le 80 sigarette al giorno, certo. Per una certa tua “clochardise” esistenziale-esistenzialista. Per il tuo essere “senza-casa” (a-oikos). Per la tua ostinata, incessante, tormentata ricerca progetto dopo progetto, della tanto vagheggiata sintesi fra architettura e città. Perché tu credevi nelle idee.
Sei stato allievo di Marcel Marceau e sei diventato un bravo attore (ma ci vuole anche talento), e come tutti gli attori quando entravi sulla scena interpretavi una parte. Preferivi però di gran lunga osservare da dietro le quinte il triste e logoro spettacolo circense dominato dai buffoni e nelle pause leggevi Leopardi. Sostenevi di essere “dogmatico”. Ma nessuno ti capiva se non aveva letto “La poetica della musica” di Igor Stravinsky, il libro-feticcio che ti portavi sempre in tasca. Con tutto questo nel cuore, ti sono profondamente riconoscente perché quasi tutto quello che ho appreso sull’architettura me l’hai insegnato tu. Non ti ho mai chiamato Maestro perché prima di te il destino mi ha fatto incontrare Bernhard Hösli e questo non si può cambiare. Non ho mai nemmeno osato chiamarti amico; amico, per te, era Livio Vacchini e forse nessun altro. Ho salutato per te la Dama Rossa, tu salutami Alessandro. Quante storie ancora da raccontare: sugli angeli di Klee, Walter Benjamin e il suo Angelus Novus, sul labirinto, Arianna e il Minotauro cornuto di Le Corbusier… Dimmi ancora una cosa: il tuo silenzio di questi tuoi ultimi anni era forse il silenzio del pescatore? Ma allora cosa pescavi, solo, su quella barca raminga senza un porto dove approdare, senza più una meta da raggiungere? Immagini? Immagini catturate all’amo della memoria. Io credo di sapere: è Afrodite (Anima Mundi) che aspettavi di veder sorgere dalla spuma, circondata di luce. Quella luce che ha sempre guidato la tua mano di architetto. “Ma, soprattutto, la luce”. Ciao Lüis, e grazie di tutto.