Questione di importanza cruciale in democrazia. Già ai tempi della scuola mi stupivo nel vedere in occasione di elezioni a cariche nella giustizia abbinato al nome del candidato quello del partito come fosse cosa ovvia, non capivo cosa c’entrassero i partiti con la giustizia. Il metodo attuale (l’elezione da parte del parlamento) fa in pratica della dipendenza partitica il lasciapassare, per poter accedere alla carica di giudice, una partito-dipendenza per cui il giudice arriva a pagare (stiamo parlando di giustizia) il partito che l’ha sostenuto, per cui un giudice sostenuto può venir richiamato perché non in sintonia con le direttive del partito. L’impressione è che quella che dovrebbe essere una competizione tra candidati diventa una competizione tra partiti. Competizione legittima, ma che dimostra tutte le debolezze di un sistema che fa eleggere al parlamento il potere giudiziario. È un metodo penalizzante perché l’etichetta partitica è quella che al momento giusto fa la differenza: chi si presentasse senza appartenenza, che libero da vincoli partitici rispecchierebbe al meglio la separazione dei poteri avrebbe minori possibilità, un paradosso. I partiti? Tutti d’accordo, tutti contro l’intruso, l’indecifrabile che non è un oggetto misterioso ma sottostà alle condizioni di idoneità attualmente in vigore. Se accettiamo la democrazia quale sistema di governo, se ammettiamo che, come mi hanno insegnato a scuola, una società è democratica nella misura in cui i poteri sono separati, questa è un’occasione per sottrarre alle logiche partitiche la scelta di chi si occupa di un’attività delicata come quella della giustizia, sostituirla con un metodo che elimina le disparità di trattamento e fare un passo in quella direzione.