“So di non sapere” è una celebre citazione, mai abbastanza ricordata, di Socrate, pensatore greco che, attraverso Platone, con quella paradossale dichiarazione è posto a fondamento del pensiero occidentale. Sì, perché è nell’ammissione dell’impossibilità di conoscere tutto, con la conseguente necessità di rivedere o rielaborare le proprie certezze, che sta il senso più profondo della nostra cultura. Da quasi 2’500 anni ci è stato tramandato che la verità va costantemente cercata e che quella ricerca, in termini assoluti, costa lo sforzo di una vita. Ecco dunque che la cultura, in tutte le sue più diverse manifestazioni, costituisce nei secoli un patrimonio vitale di sopravvivenza della nostra specie. Proprio nel suo proporsi come strumento di riflessione, che costringa a pensare e pensarsi in modo sempre nuovo e diverso, la cultura più alta e feconda rappresenta una sorta di propulsore della necessità di mettersi in discussione e della capacità umana di mettere in discussione, doverosamente, ogni semplificazione strumentale, su cui si regge peraltro l’ordine costituito, il pensare comune e dominante, fatto di parole d’ordine cui sottostare come fossero un destino ineluttabile. Sarà per questo che in momenti storici come quello che stiamo vivendo è sulla cultura (e sulla sua prima “casa”, che da sempre è la scuola) che si concentrano non pochi tentativi di metterne in discussione la legittimità e l’importanza, trasformandola, con artifici retorici piuttosto rozzi ma di crescente successo, in un “prodotto” di cui va quantificata la “redditività”.
In un attimo, con due o tre tocchi di pura demagogia (che è anticultura per definizione) si arriva così a far coincidere l’ambito culturale con qualcosa di elitario, antipopolare, inutilmente costoso. Una patata bollente in mano ad amministrazioni pubbliche che, in difficoltà finanziarie, non vedono l’ora di liberarsene ritenendola tendenzialmente un privilegio, concesso a pochi sinistri cultori colpevoli di battersi per la sopravvivenza di un museo, una stagione teatrale, il sostegno alla pubblicazione di libri “che non legge nessuno”. Mai che si pensi, appunto, a quel paradosso di 2’500 anni fa, e a un’idea di cultura che tocca anzitutto la vita quotidiana di ciascuno e che in quanto tale andrebbe coltivata come si fa con i prodotti agroalimentari e si dovrebbe fare con le buone maniere.
Impera e si diffonde, specie in determinati ambiti politici, una sorta di sottile e sotterraneo dispregio per tutto quanto si apparenta all’idea di cultura, che siano le specifiche pagine dei giornali, un certo genere di programmi televisivi, i costi di un’orchestra sinfonica, incontri e dibattiti pubblici, che costano più di quanto non rendano. Una contabilità stralunata, tutta costruita su principi perlomeno discutibili che vengono fatti diventare in poco tempo “indiscutibili”, evidenti e condivisi. Pensare in termini socratici, nella ricerca di visioni e prospettive, non interessa a una politica dominante come quella attuale, che si mostra costantemente impreparata di fronte alle questioni appena un po’ complesse e che, non contenta, per stare a galla, impugna toni di disprezzo verso chi il pensiero cerca ancora di coltivarlo ponendo questioni “di fondo”, in nome di una logica del punto interrogativo contrapposta a quella, in vigore più che mai, del punto esclamativo. Domande subito sotterrate come oziose, ambiziose, ideologiche (un termine con cui, ormai, si squalifica ogni progetto alternativo all’imperante regime economico neoliberista).
Così, un ordinamento sociale cosiddetto “democratico”, che si dovrebbe costruire e vivificare nel confronto e nel dibattito fra competenze e orientamenti, è diventato il terreno di una sommaria liquidazione di ogni parvenza di rispetto per il senso delle parole e una loro articolata, coerente e trasparente utilizzazione. Ecco dove primariamente e più gravemente, da noi, nel nostro misero contesto cantonale, si sente la mancanza di cultura: nella gestione dei bisogni della collettività, nella loro elaborazione e comunicazione politica e, per andare più nel dettaglio, nelle argomentazioni becere del domenicale di via Monte Boglia (che dello scherno e del disprezzo fa la propria “cifra stilistica”) come nel faticoso eloquio di molti politici in manco di grammatica e sintassi quanto di idee; per non dire di un consigliere di Stato, che nel dichiarare che la crisi della magistratura l’aveva prevista, attribuisce questa sua capacità intuitiva alla propria esperienza di arbitro di hockey su ghiaccio, poiché in quel contesto capiva quando i giocatori erano intenzionati a prendersi a bastonate. Ecco, in un contesto in cui la cultura ha ancora un ruolo e uno spazio, una simile affermazione farebbe subito porre qualche domanda, almeno sulla sua sensatezza. Ma siamo tristemente arrivati fin qui, dove chi sta in alto può dire quel che gli pare e brandire le più grevi metafore o similitudini. Una cultura del bastone o della clava, insomma, ben precedente a quella tramandataci da Socrate, ma oggi forse più che mai in uso non solo per togliere sostegno a specifiche iniziative culturali ma soprattutto per contrastare chi osa pensare e porre domande.