La realtà è che per i ricchi le relazioni costruite nel luogo in cui hanno realizzato la propria fortuna sono la chiave per poterla perpetuare
Per almeno tre decenni ci hanno spiegato che i milionari sono spietati e non esitano a spostarsi dove il regime fiscale è loro più favorevole. Ebbene, com’era facile immaginare, è un’affermazione farlocca. Il Financial Times, riportando i dati di Heimley&Partners, continua a suffragare la tesi, affermando che quest’anno oltre 120’000 milionari emigreranno alla ricerca di regimi fiscali più accondiscendenti. Lo stesso Ft afferma però anche che molti Paesi stanno cambiando strategia, perché il trattamento di favore dei milionari non piace alla maggioranza della popolazione. “Potrebbero essere difficili da giustificare politicamente, perché in fin dei conti stai facendo un favore ai ricchi”. Tuttavia, secondo il quotidiano finanziario, “la ricchezza e la spesa che i super ricchi portano in un Paese sono la motivazione principale per stendere il tappeto rosso fiscale”. E sul fatto che i super ricchi siano contribuenti interessanti nessuno lo mette in discussione.
Uno studio dal titolo “Il mito della fuga fiscale dei milionari” di Cristobal Young, professore associato di sociologia alla Cornell University, afferma che “sebbene abbiano davvero le risorse e la capacità di fuggire da luoghi con tasse alte, la loro migrazione effettiva è sorprendentemente limitata. Il fatto è che per i ricchi le relazioni costruite nel luogo nel quale hanno realizzato la propria fortuna, e dove spesso sono potenti insider, sono la chiave per poterla perpetuare”. Lo studio ha esaminato il comportamento di 500mila americani che dichiarano oltre 1 milione di dollari. Il risultato è sorprendente: solo il 2,4% di essi cambia Stato, contro il 2,9% della popolazione “normale”. Ma non è finita: tra chi decide di emigrare solo il 2% lo fa per motivi fiscali.
In Italia la campagna per attirare i milionari grazie a un’imposta fissa di 100’000 euro ha avuto scarso successo: in 6 anni sono arrivati 2’700 individui cioè 4,6 ogni 100mila milionari. L’Ong Tax Justice Network nella sua campagna “Tax the rich” sostiene che negli ultimi decenni i ricchi sono stati protetti dalla convinzione dominante che tassarli sarebbe dannoso per l'economia. Ciò ha portato a ridurre le imposte patrimoniali, di successione e sui capital gain, mentre milioni di persone lottano ogni mese per pagare le bollette o potersi permettere una visita da un medico specialista. Se tutti i Paesi Ue si accordassero su una patrimoniale sulle ricchezze detenute in patria, raccoglierebbero 213,2 miliardi. E se colpissero anche la ricchezza offshore nascosta in paradisi fiscali come le Bermuda, le Isole Cayman o le Isole Vergini Britanniche, le entrate fiscali salirebbero a 272,7 miliardi. Fondi per sanità, istruzione, servizi sociali, welfare, investimenti pubblici. Altro che populismo. Secondo Social Europe una tassa sui patrimoni dello 0,5% delle famiglie più ricche permetterebbe a ogni Paese di raccogliere, in media, l’equivalente del 7% del proprio budget di spesa. In totale, nel mondo, con un’aliquota compresa tra l’1,7% e il 3,5%, si riuscirebbero così a raccogliere più di 2'000 miliardi di dollari.
La narrazione dominante afferma che i milionari portano ricchezza, innovazione e capacità imprenditoriali e che quindi poterli attirare nel proprio Paese rappresenta un vantaggio per tutti. Possiamo dare per buona questa affermazione, ma il problema di fondo è quello di un’equa ridistribuzione della ricchezza. I milionari sono diventati tali anche perché hanno potuto operare all’interno di un sistema economico che funziona (funzionava) relativamente bene. Rifiutarsi di partecipare alla crescita e al benessere economico è controproducente anche per gli stessi milionari perché se un sistema va in crisi perché la maggioranza della popolazione fa fatica ad arrivare a fine mese, anche le loro attività ne risentiranno. In fondo si tratta di tornare a un principio liberale dell’800: le imprese devono essere libere di operare sul mercato ma lo Stato ha il compito di intervenire a correggere le disfunzioni.