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Il cittadino e il magistrato

(Ti-Press)

La preoccupante vicenda del Tribunale penale cantonale, tuttora in atto, merita una riflessione su come il magistrato e lo Stato siano nati e che cosa il cittadino può e deve esigere dall’uno e dall’altro.

L’uomo, per quanto primitivo possa essere, non tollera l’ingiustizia per un certo istinto innato, che gli si nota sin dai primi anni di vita (Charles Dickens in ‘Grandi speranze’ osserva che “nel mondo dei bambini, nulla è mai tanto acutamente percepito e sentito quanto l’ingiustizia”), al punto che i seguaci dell’antropomorfismo (tendenza ad attribuire intelletto e sentimenti umani a esseri diversi dall’uomo) lo intravedono negli animali. Quindi niente di più legittimo della vendetta contro chi ha commesso una ingiustizia. Senonché la vendetta, benché lecita, facilmente superava quanto necessario per ristabilire la concordia rotta dal colpevole, ciò che innescava una scalata di violenze sempre più gravi, compromettendo la pace sociale. Si è quindi cercato di porre rimedio con la legge del taglione, “occhio per occhio dente per dente”, che per noi è una barbarie; invece è il primo grande passo della civilizzazione, come la ruota in fisica. Però anche la reazione tariffata, ma non controllata, superava spesso l’azione e vinceva sempre il più forte o il più scaltro, per cui si imponeva un terzo neutro che giudicasse: l’arbitro, scelto tra le persone note per il loro buonsenso e la loro onestà generanti la fiducia. Il risultato è stato tale che l’arbitro, da occasionale, diventasse usuale e con il tempo si istituzionalizzasse in un ente più sicuro e neutro, quindi più accessibile e affidabile: lo Stato, al quale il cittadino ha trasferito il suo “diritto naturale di punire per essere meglio”, come insegna John Locke (di lui, Voltaire disse: “Forse non ci fu mai spirito più saggio”). Poi, a seguito dell’assunzione di nuovi compiti, lo Stato si è suddiviso in tre poteri: legislativo, esecutivo e giudiziario. Ciononostante, il suo compito fondamentale e insostituibile permane e permarrà sempre la giustizia. Lo attestano, in particolare, il “Cahier des charges” (proteste sul cattivo funzionamento della giustizia) che ha scatenato la Rivoluzione francese e, in casi individuali estremi, persino lo sciopero della fame o il suicidio. Quindi non per nulla lo Stato è giudicato, in bene o in male, in base alla qualità della sua giustizia. Ma la qualità della giustizia dipende dalla qualità del magistrato e la qualità del magistrato è in funzione non solo del suo sapere professionale e generale, ma anche della sua probità e della sua prudenza (virtù cardinale!), quindi del suo comportamento generale personale e professionale, che ne fanno un missionario.

Ciò premesso, che dire dell’atteggiamento del presidente del Tpc Mauro Ermani? Viola in modo grave il dovere del magistrato il che, per le ragioni dette sopra, si ripercuote immediatamente e direttamente sul “consenso” (la fiducia del cittadino nelle Istituzioni), sul quale si regge la democrazia liberale. “Consenso” che Montesquieu chiama “virtù”, in contrapposizione al principio di “autorità”, caratteristica dello Stato totalitario. Grave, anche se le fotografie inviate da Ermani non fossero diventate di dominio pubblico, per cui si impone una sola soluzione: “Ho sbagliato e ne assumo la relativa responsabilità”, gesto che lo onorerebbe e per di più aumenterebbe la fiducia del cittadino nel magistrato e nelle Istituzioni. Mentre il persistere come se niente fosse capitato suscita l’impressione di una possibile recidiva.

E che dire della politica? Data la forza istituzionale emanante dal bisogno di giustizia, al punto di creare lo Stato e di consolidarlo in quanto prezioso e unico, deve prediligere magistrati di tutti i gradi che accanto alle loro qualità morali e cognitive professionali, annoverino almeno dieci anni di attività quale avvocato. Questo perché solo l’avvocato, grazie alla comunanza (protetta dal segreto professionale) con chi difende (colpevole o vittima), può prendere coscienza dei particolari rapporti che sorgono tra avvocato e cliente e dell’intensità del dolore di quest’ultimo e della sua famiglia, nonché delle possibili gravi conseguenze, derivanti da una decisione ingiusta (dal che è nato il “cognitor”: l’antenato dell’avvocato, il quale addirittura si sostituiva al cliente sopportando, in bene e in male, le conseguenze del procedimento). Questa esperienza di vita è la virtù che porta in sé il magistrato ex avvocato, la quale spontaneamente ne fa di lui un esemplare di rettitudine, personale e professionale, ispirante nel cittadino la massima fiducia nelle Istituzioni: appunto un missionario laico.

E la Commissione dei magistrati? È la guardiana del tutto, per cui, se questa fiducia è compromessa, considerate le conseguenze istituzionali che ne derivano, deve intervenire con provvedimenti cautelari, indipendentemente dell’esistenza o meno della “base legale formale”: è il caso della lacuna della legge e più generalmente del “Not kennt kein Gebot” (necessità non conosce legge). Semmai il Tribunale federale giudicherà. È quanto già prevedeva il diritto romano: la giurisprudenza pretoria.

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