In Svizzera l'educazione superiore sembra essere appannaggio delle famiglie privilegiate. Come cambiare questa tendenza?
Un’analisi dell'Università di Berna avviata a partire dal 2001 su un campione di uomini e donne tra il loro sedicesimo e il loro quarantesimo anno d’età e pubblicata da poco, giunge a una conclusione deludente per il sistema educativo svizzero: in base alle interviste condotte è risultato che chi proviene da famiglie dove almeno uno dei genitori è laureato ha il doppio delle probabilità di laurearsi a propria volta, rispetto a chi nasce in famiglie dove nessuno ha una laurea, con una percentuale del 40% rispetto al 20%. Ciò significa che in Svizzera la scuola è concepita in modo tale da favorire soprattutto gli studenti provenienti da famiglie privilegiate. Il vantaggio inizia già nella scuola dell’infanzia, per poi proseguire negli anni seguenti, con i genitori laureati più disposti ad aiutare i figli con i compiti e a pagare per eventuali ripetizioni.
Interpellato dal Tages-Anzeiger in merito, uno dei due responsabili dello studio, il prof. Becker, afferma di non nutrire grandi speranze di cambiamento: nonostante le timide misure che si attuano, come il sostegno scolastico o le borse di studio, in Svizzera manca la volontà reale di eliminare le disuguaglianze. Che sia così lo conferma Jürg Schoch, esperto di pari opportunità ed ex direttore di liceo, quando in un articolo apparso qualche giorno dopo, sempre sul Tages-Anzeiger, spiega che i licei, che spesso risultano inaccessibili perfino ai geni della matematica, aprono invece le loro porte a studenti mediocri o anche scarsi ma spinti dalle famiglie. Schoch aggiunge che non tutti devono andare per forza al liceo, che anche con un apprendistato si può imparare un mestiere appagante e avere un salario alto, perfino più cospicuo di quello di un laureato.
Naturalmente Schoch ha ragione, però dimentica un particolare, qualcosa che nell’ambito di questo tipo di discussioni si dimentica spesso e volentieri: che andare a scuola non deve servire a raggiungere soldi e status. Non è questo l’obiettivo finale: si studia per imparare, per apprezzare un bel libro, per appagare la propria curiosità e conoscere la musica, l’arte, la scienza, la storia e tutto ciò che fa parte dello scibile umano. Il mestiere dei giovani è infatti quello di sviluppare le proprie capacità cognitive per apprendere a ragionare e a muoversi con sicurezza nel mondo ed essere così in grado di votare con cognizione di causa e non cedere alle tentazioni di populismi e soluzioni sbrigative e a riconoscere la falsa informazione.
Lo scopo ultimo di una società è il benessere dei cittadini, ma ciò lo si raggiunge soltanto con l’educazione. Per questo non bisognerebbe porre ostacoli alla conoscenza, ma favorirla, motivando i giovani a studiare, anche se poi sceglieranno di non andare all’università. Perché sarebbe bellissimo avere elettricisti che amano la poesia, falegnami con l’hobby dell’astronomia, informatici che suonano il violino e giuristi, medici ed economisti che danno più importanza all’essere che non all’avere, perché la superiorità e l’inferiorità sono concetti che non esistono realmente.