Le organizzazioni sportive amano rappresentarsi come modelli di inclusione ed equità. Ma questi principi sono raramente messi in pratica. In Afghanistan, i talebani hanno vietato a donne e ragazze la pratica di qualsiasi disciplina sportiva. Una delle conseguenze è che la squadra di calcio femminile afghana non può giocare sotto una bandiera ufficiale. La richiesta di riconoscimento che la squadra ha rivolto alla Fifa è caduta nel vuoto. La Francia, Paese che si prepara a ospitare le Olimpiadi, si rifiuta di permettere alle atlete che la rappresentano e indossano il velo di partecipare ai Giochi estivi. A prescindere dalla loro bravura in campo, a Parigi le pallavoliste, le giocatrici di basket e le calciatrici francesi che indossano un “hijab sportivo” non potranno competere con le migliori delle loro discipline. Il Comitato olimpico internazionale (Cio) permette questa discriminazione, anche se è chiaramente in contrasto con i valori che diffonde. In Mali, da decenni le giocatrici di basket delle squadre giovanili U18 subiscono abusi sessuali da parte di allenatori e funzionari dell’associazione. Dopo la scoperta delle gravi violazioni da parte di organizzazioni per i diritti umani, l’associazione internazionale di pallacanestro Fiba ha aperto un’indagine. Tuttavia, ha fatto le cose a metà: non è stata intrapresa alcuna azione efficace per proteggere gli informatori e le persone colpite dalla violenza sessuale non hanno ottenuto risarcimenti per quanto vissuto.
A un anno dagli Europei di calcio femminile in Svizzera, in questa disciplina il sessismo e la discriminazione strutturale sono ancora una realtà. Lo mostra bene un servizio sul tema diffuso in primavera dalla televisione svizzero-tedesca. Ma sia l’Associazione svizzera di calcio che la Uefa non sembrano essere consapevoli dell’urgenza del problema e sono riluttanti a mettere in atto misure efficaci contro la discriminazione. Tutti questi esempi di discriminazione di genere nello sport hanno un aspetto in comune: i potenti organi di governo internazionali non sono riusciti a giocare d’anticipo, a prendere una posizione coraggiosa contro la discriminazione e a garantire che nello sport donne e ragazze siano sostenute, incoraggiate e protette nella stessa misura delle loro controparti maschili.
Ma c’è dell’altro: tutte le associazioni sportive citate hanno sede in Svizzera. Non voglio accusare le organizzazioni sportive di essersi stabilite in Svizzera perché qui non sono ritenute responsabili delle loro mancanze. Tuttavia, è un dato di fatto che in Svizzera – un Paese che si è impegnato a rispettare le linee guida dell’Onu e dell’Ocse per le imprese e i diritti umani – le organizzazioni sportive non sono chiamate a rendere conto del proprio operato. L’esempio più recente è la proposta lanciata dal Consiglio federale per l’obbligo di rendicontazione sulla governance aziendale sostenibile, che non menziona affatto le associazioni sportive. Questo nonostante il fatto che Fifa, Cio, Uefa & Co. abbiano entrate miliardarie e dovrebbero essere trattate come vere e proprie aziende sportive. I fatti sopra descritti dimostrano che questo atteggiamento di “laissez-faire” nei confronti delle organizzazioni sportive è un fallimento con conseguenze tangibili per le persone colpite da abusi e discriminazioni. Per meglio proteggere le sportive, i tifosi, i lavoratori e le altre persone coinvolte nei grandi eventi sportivi, è indispensabile che il Consiglio federale adotti misure efficaci per responsabilizzare le organizzazioni sportive.