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Medaglie, ma non per la legge

Per ottenere la cittadinanza elvetica la corsa ha molti più ostacoli di quelli sportivi

Dominic Lobalu
(Keystone)

Ai recenti Campionati europei di atletica leggera Dominic Lobalu ha conquistato due medaglie per la Svizzera, un grande risultato per questo giovane proveniente dal Sud Sudan e approdato in terra elvetica nel 2019, dopo aver dovuto fuggire dal suo Paese e, come tanti altri, aver dovuto percorrere il difficile cammino della speranza verso nord. Lobalu ha contribuito a rimpinguare il nostro medagliere nazionale ma, purtroppo senza sorpresa, la legge svizzera non lo ha ancora riconosciuto come suo cittadino, perché per ottenere la cittadinanza elvetica la sua corsa ha molti più ostacoli di quelli sportivi.

L’attuale legislazione sulla cittadinanza, processo stranamente chiamato in italiano e in francese “naturalizzazione” (come se non avere il passaporto svizzero fosse davvero innaturale) prevede infatti che, prima di tutto, lo straniero che aspira al passaporto rossocrociato ottenga il permesso di domicilio (permesso C), obiettivo che è possibile raggiungere solo dopo anni di permanenza legale nel nostro Paese e una buona integrazione, che difficilmente viene riconosciuta in caso di ricorso all’aiuto sociale; una prima condizione difficile da rispettare, non per Lobalu, ma certamente per moltissime altre persone che hanno un passato da rifugiato. Poi è necessario poter dimostrare almeno 10 anni di permanenza legale in un Comune svizzero, quindi 10 anni di permesso B, C o F (in quest’ultimo caso gli anni contano solo per la metà, quindi ce ne vogliono ben 20). Infine bisogna dimostrare ancora una volta un buon grado di integrazione nel contesto elvetico. Se andrà bene Lobalu potrà avere il passaporto con la croce svizzera nel 2031 (non credo abbia ancora il permesso C) e quindi passeranno anni in cui difenderà i nostri colori nazionali sulle piste di mezzo mondo, arrivando a far risuonare il salmo svizzero in suo onore senza che Elvezia lo abbia riconosciuto come cittadino.

Mi complimento con questo giovane per le sue capacità sportive, faccio i complimenti anche alle istanze che hanno voluto regolare la sua “nazionalità sportiva” in fretta, grazie alla comprensione delle federazioni internazionali, ma ritengo che questa storia mostri bene i chiari limiti dell’attuale legge sulla cittadinanza svizzera, capace di produrre anche paradossi imbarazzanti, oltre che una burocrazia molto corposa e molto poco elvetica.

Un recente studio della Commissione federale della migrazione ha mostrato come l’attuale legislazione sulla cittadinanza, di base molto rigida, sia divenuta anche selettiva, rendendo molto arduo il percorso delle persone poco formate o con risorse finanziarie limitate. Paradossalmente, se le cose non cambieranno, grazie a questa selezione imposta dalla legge i nuovi svizzeri, anche se saranno meno, saranno proporzionalmente più capaci di assumere ruoli dirigenti e probabilmente a medio e lungo termine saranno sovrarappresentati nei gremi sociali, economici e politici nazionali che contano. Una beffa prodotta da una legge sbagliata, molto poco inclusiva e capace, in prospettiva, di causare effetti addirittura controproducenti per chi, partendo da una visione nazionalista, aveva l’ambizione, attraverso una maggior rigidità, di salvaguardare l’identità rossocrociata.

Una legge che andrebbe modificata, rivedendo a mio parere il tempo di soggiorno minimo richiesto, slegando il soggiorno dal tipo di permesso, permettendo una mobilità dei richiedenti dentro i confini cantonali e affidando la procedura decisionale ai soli organi esecutivi. Una legge più moderna, capace di evitare imbarazzi come quello oggetto di questo articolo, di accogliere le tante persone di valore che vogliono vivere nel nostro Paese pur non essendo universitari o abbienti e di abbandonare pretese verso chi chiede la cittadinanza, pretese che non poche persone che hanno il passaporto rossocrociato dalla nascita faticherebbero a onorare.