Il direttore generale per la Svizzera di “Medici senza Frontiere” Stephen Cornish ha lanciato da “laRegione” del 7 dicembre un drammatico appello ‘A Gaza urge un cessate il fuoco duraturo’. La voce di colui che piange (vox clamantis) per vittime innocenti, medici e infermieri tocca le nostre corde più profonde. Sotto gli attacchi incessanti e indiscriminati alla popolazione civile, i sanitari cercano di portare il loro soccorso tra le macerie delle case, e di operare in ospedali affollati e devastati, ormai quasi “a mani nude” per la mancanza di tutto. Vengono i brividi solo a immaginare quel bambino amputato di un arto senza anestesia, sotto gli occhi della madre e della sorellina; e chissà quante altre atrocità verranno ancora a galla. Come medici, ma ancora di più semplicemente come esseri umani, dobbiamo rompere questo rassegnato silenzio e urlare tutto il nostro sdegno per il mancato rispetto delle pur minime regole di salvaguardia del diritto umanitario in questa regione di guerra. E non si tratta di schierarsi per l’uno o per l’altro fronte, ma contro la guerra, questa guerra che sta facendo tabula rasa di bambini, donne, feriti e personale sanitario. Molte voci, anche dal mondo ebraico, si alzano contro le atrocità di un esercito guidato da un condottiero feroce, accecato dalla sete di vendetta (e di potere), che alcuni chiamano bonariamente “Bibi”, “piccolo male” nel linguaggio dei bambini, un macabro vezzeggiativo…
Anche se ci sentiamo quasi annichiliti per il senso di impotenza e di frustrazione, condiviso da organizzazioni e persone ben più potenti, seguiamo questo appello e facciamo sentire la nostra voce di solidarietà per i colleghi al fronte e di pietà per le vittime della carneficina. Certo, ci sentiamo come granelli di sabbia nel deserto, ma confidiamo che tanti granelli – insieme a qualche pietra più potente di noi (per esempio, come evocato nell’articolo, il medico e politico Ignazio Cassis in Consiglio federale e all’Onu) – forse potranno far inceppare gli ingranaggi della mostruosa macchina da guerra.
È vero, la nostra è come “la voce di colui che grida nel deserto (vox clamantis in deserto)”, ma credo che come medici, meglio ancora se anche tramite associazioni di categoria (Omct, Fmh), siamo chiamati almeno a esprimere solidarietà e sostegno concreto all’organizzazione non-governativa e indipendente “Medici Senza Frontiere”. Anche solo per poter portare ancora il camice bianco, senza distogliere lo sguardo da quello rosso vermiglio dei nostri colleghi al fronte.
“Vox clamantis in deserto?” Sì, e a “Voce alta”, come nel romanzo (e film) di Bernhard Schlink, per non ritrovarci come Hanna, la carceriera del campo di concentramento, a dire a posteriori: “Che cosa sarebbe cambiato? I morti sono morti”.