In data 20 maggio 2023, ‘laRegione’ ha pubblicato un’intervista di Sabrina Melchionda a Flavio Del Ponte, medico per lungo tempo al servizio della Croce Rosse nonché autore della prefazione del libro ‘Henry Dunant. L’uomo che inventò la Croce Rossa’. Questo libro, firmato dal letterato friburghese Gérard A. Jaeger, è stato appena tradotto e stampato da Armando Dadò Editore. L’edizione originale francese risale al 2009.
Nel testo pubblicato dal giornale, gloria viene data al personaggio Dunant. Un po’ come nel libro. “Derubato dagli uomini, Dunant si rifiutò ostinatamente di essere abbandonato dalla Storia”, afferma Melchionda. “Basterà la voce della Croce Rossa a richiamare il rispetto dei valori di Dunant?” chiosa dal canto suo Del Ponte.
Come spesso succede in questi casi, l’analisi critica rischia di fare difetto. Certo, i meriti di Dunant nel campo dell’umanitario non si discutono. Tuttavia, occorre precisare che Dunant, discendente dell’aristocrazia ginevrina, è stato, oltre che filantropo e fervente cristiano in Europa, uno spregiudicato affarista coloniale in Africa. Seguendo le più predatorie logiche capitalistiche dello sfruttamento di terre e popoli d’oltremare, egli non ha mancato occasione di accrescere i suoi affari e/o risolvere i suoi problemi di liquidità. Ha così passato parte della sua vita a sollecitare partenariati con speculatori del suo stesso rango e concessioni da parte di autorità imperiali. L’origine del viaggio di Solferino è da iscriversi in questo contesto. Quanto ai ‘valori di Dunant’, essi sono stati a geometria variabile. Nel resoconto del suo soggiorno a Tunisi, pubblicato nel 1857, il sistema schiavistico magrebino venne discolpato con candore. Sul fronte algerino, non una parola fu professata circa la brutalità della conquista militare francese, l’espropriazione subita dalle comunità native o ancora la loro deportazione – tutte pratiche di cui Dunant beneficiava direttamente come imprenditore coloniale. E ancora, a tracollo finanziario avvenuto, nuovi progetti apparvero in favore di una colonizzazione cristiana della Palestina dietro la quale poter riconquistare il posto perduto nel club del lucro coloniale.
Fu soltanto verso fine secolo che, esiliato da Ginevra, ma nelle grazie della baronessa Bertha von Suttner, Dunant cominciò a redigere memorie per così dire pacifiste e anticoloniali. Amica del chimico e imprenditore Alfred Nobel, la baronessa giocò un ruolo primordiale nell’istituzione del Premio Nobel per la Pace: un riconoscimento creato tramite la colossale fortuna prodotta dall’industria degli armamenti – tipica contraddizione del capitalismo. E grazie a una campagna minuziosamente orchestrata, Dunant riuscì ad accaparrarsi, non senza legami con questa sua improvvisa deviazione di pensiero, la prima edizione del Premio nel 1901, affiancando l’altro vincitore, lui sì pacifista di lungo corso, Frédéric Passy.
Dare rilievo a questi fattori permetterebbe di arricchire il discorso sulla figura di Henry Dunant e sulla sua eredità simbolica. Un’eredità estremamente positiva se vista in modo idealizzato, ma storicamente problematica se analizzata con attenzione. L’opera umanitaria di Dunant fu infatti originata da una caccia ai sovraprofitti coloniali di cui egli stesso fu predatore prima che vittima. Su un altro fronte, le sorti dell’umanità non erano viste o vissute allo stesso modo in Europa o nelle colonie. Infine, arrivismo e altruismo confluirono senza soluzione di continuità in Dunant. La storia, insomma, è complessa. E l’invito non è discreditare il filantropo di Ginevra, ma provare ad analizzarne le gesta con più distacco e più contesto. Misurando il ruolo delle collettività, degli interessi in gioco e dell’interlacciamento di elementi contraddittori nel corso del tempo. Si potrà allora forse riuscire a spiegare davvero ‘perché è importante far conoscere la figura di Henry Dunant’.