Una rivendicazione onesta della parità di genere deve includere gli aspetti (pochi rispetto al loro opposto) per i quali la differenza è a sfavore degli uomini. A prima vista, l’innalzamento dell’età di pensionamento femminile rappresenta quindi un’ovvia correzione di un divario oggi ingiustificato. In realtà, parità non deve significare un’impossibile uguaglianza, bensì un’equità rispettosa delle situazioni specifiche.
Posticipando il diritto alla rendita Avs, quest’equità non verrebbe raggiunta da molte donne che dovrebbero semplicemente lavorare un anno in più, mantenendo però lo stesso svantaggio remunerativo rispetto agli uomini e continuando a farsi carico, parallelamente all’attività lucrativa, della maggior parte delle mansioni non retribuite, per infine ottenere una situazione pensionistica analoga a quella odierna, ossia, ancora una volta, sfavorevole rispetto a quella maschile.
Oggi molte donne attorno ai 63 anni sono in un pieno di attività in quanto hanno un’occupazione lavorativa e nel contempo sono impegnate con nipotini, eventualmente con qualche figlio rimasto nei paraggi, con genitori e suoceri ed eventualmente con qualche vicina di casa, senza contare la casa e il compagno. Esse contano i mesi che le separano da una vita di "sole" 30 ore settimanali di lavoro gratuito, anziché ad esempio 20 ore retribuite (con un salario a tempo parziale, possibilmente inferiore a quello del collega e una prospettiva pensionistica corrispondente) e 25 gratuite. Si noti che queste persone assumono un importante ruolo informale in settori che dovrebbero essere di competenza pubblica e che in loro assenza occorrerebbe un aumento delle risorse della collettività destinate segnatamente ad asili nido e a servizi di assistenza a domicilio.
È noto che esiste un’importante differenza tra le entrate finanziarie di donne e uomini durante la cosiddetta vita attiva. Si realizza forse meno che questa differenza aumenta ulteriormente con il pensionamento. Molte donne posseggono un capitale da 2° pilastro molto ridotto in quanto accumulano piccole percentuali lavorative durante l’arco della vita e il 3° pilastro resta un privilegio molto maschile. Aumentare l’età di pensionamento di una parte numerosa della popolazione significa inoltre chiudere gli occhi sull’esclusione di cui fa prova il mercato del lavoro nei confronti delle persone più anziane (circostanza che va altresì a gravare altri settori del nostro sistema sociale e segnatamente l’assicurazione disoccupazione), nonché ignorare la disoccupazione giovanile. Ci sarebbero altri modi per rafforzare l’Avs senza vuotare le già magre tasche delle donne che alla società danno già moltissimo.
Invito a votare il 25 settembre per dire No a una riforma iniqua.