Da quando "i fisici hanno conosciuto il peccato" (R. Oppenheimer), ovvero da quando gli scienziati hanno inventato la bomba atomica, siamo entrati in una fase della storia umana in cui l’esistenza stessa della Terra può dipendere dalla volontà di pochissime persone. Quasi tutti, dopo Hiroshima e Nagasaki, hanno capito le drammatiche implicazioni dell’arma nucleare. Giovanni XXIII, nell’enciclica "Pacem in terris" (1963), osservava che "se è difficile persuadersi che vi siano persone capaci di assumersi la responsabilità delle distruzioni e dei dolori che una guerra causerebbe, non è escluso che un fatto imprevedibile e incontrollabile possa far scoccare la scintilla che metta in moto l’apparato bellico" (n. 60). Lo scrittore giapponese Yukio Mishima, nel suo romanzo "La stella meravigliosa" (1962), fa dire a uno dei personaggi che "la guerra nucleare […] sarà causata – più che da un odio collettivo – da un capriccio individuale, dal turbamento di una persona o da una ‘sfortunata’ combinazione". In questa stessa linea va pure il film di Stanley Kubrick "Il dottor Stranamore" (1964), nel quale l’olocausto nucleare è appunto innescato dalla follia di un singolo militare e da una serie di drammatiche coincidenze. È quindi evidente – da quasi 80 anni – che l’umanità non può (più) permettersi la guerra, tanto meno se sono coinvolti Paesi che dispongono di armi nucleari, ancora meno se i Paesi in questione non sono delle vere democrazie. Se già nell’antichità poteva essere stupido ricorrere alle armi per risolvere i rapporti tra le comunità politiche, oggi questa eventualità è pericolosa ed è una pazzia. Per questo motivo mi fa un po’ paura la retorica di chi afferma che il conflitto tra Ucraina e Russia vada risolto con le armi, magari con il coinvolgimento diretto di altri Paesi. Il popolo ucraino ha ovviamente il diritto di decidere come reagire all’invasione dell’esercito russo. Gli altri Paesi – pur distinguendo tra aggressore e aggredito – hanno un diritto altrettanto fondato di misurare le conseguenze di un conflitto allargato e agire di conseguenza. I parallelismi un po’ romantici con la conferenza di Monaco del 1938, con il "morire per Danzica" o con i movimenti di resistenza partigiani non tengono conto dell’evoluzione della tecnologia militare. Mi preoccupa che alcuni intellettuali "progressisti" (e antimilitaristi in casa propria) si lascino sedurre dal fascino di una guerra "giusta". Oggi – a meno di accettare la logica del fiat iustitia et pereat mundus (sia fatta la giustizia e perisca pure il mondo) – non esiste più alcuna guerra che possa dirsi davvero giusta. Del resto, già nel 1963, Giovanni XXIII sosteneva che "riesce quasi impossibile pensare [in latino: alienum est a ratione, cioè: è estraneo alla ragione] che nell’era atomica la guerra possa essere utilizzata come strumento di giustizia" (op. cit. n. 67). Non ho né l’ambizione, né le competenze per abbozzare scenari futuri, salvo sperare che la luce della ragione possa guidare le persone che hanno la possibilità di interrompere questa inutile strage. Penso che in un mondo così fittamente interconnesso, soprattutto dal profilo economico e commerciale, vi siano del resto sufficienti strumenti per raggiungere una soluzione ragionevole senza ricorrere a un conflitto armato europeo o planetario. Per la Svizzera mi sembra ci sia soprattutto l’insegnamento che una robusta democrazia è il miglior argine per evitare derive di ogni genere e preservare il bene prezioso della pace. Il nostro sistema di democrazia semi-diretta merita quindi di essere promosso e consolidato, valorizzando il dialogo, il confronto e la ricerca di soluzioni condivise ed equilibrate.