Prendendo spunto da un intervento appassionato e combattivo di Francesca Rigotti, Marcello Ostinelli ha recentemente pubblicato su questo giornale un articolo magistrale. Fra i suoi meriti, anche quello di correggere, per quanto possibile, lo spettacolo deprimente del contributo offerto dalla filosofia al dibattito pubblico sulle misure intraprese dai governi per combattere la pandemia. Intendo da quella filosofia che si è contrapposta frontalmente a queste misure, facendo appello a un’idea della libertà astrusa e autoreferenziale. Perché del tutto noncurante del fatto che la vita in società, soprattutto in condizioni di emergenza, comporti necessariamente qualche ulteriore limitazione dei nostri margini di manovra. Voglio però ammettere che queste prese di posizione un merito lo hanno avuto: sdoganare un termine, quello di biopolitica, precedentemente riservato ai soli specialisti della materia. Ma è un merito che finisce qui.
Non si poteva attivare, infatti, categoria peggiore per dar conto della mobilitazione politico-sanitaria orchestrata in questo caso dai governi. Diciamocelo, una mobilitazione così incerta, così preoccupata (e si capisce perché) di mediare tra i diversi interessi contrapposti da essere lontanissima dai dispositivi capillari e pervasivi, tatticamente orientati, quali si presuppongono alla base dell’azione di un potere autoritario. Niente a che fare con qualcosa come una dittatura sanitaria.
È certamente vero che il concetto di biopolitica consente di cogliere una svolta nel modo in cui il potere si attiva per organizzare il controllo sugli individui, diciamo a partire all’incirca dalla metà del Settecento. Quando progressivamente si afferma un modo di governare che fa valere la sua efficacia non solo mirando, come già accadeva a partire dal Seicento, il corpo singolo degli individui, così da poterne disporre dall’interno delle sue stesse fibre, anatomicamente. Ma soprattutto controllando quel corpo collettivo che è la popolazione: un insieme di esseri viventi, direbbe Michel Foucault, attraversato, comandato e organizzato da processi che rispondono a leggi biologiche. Saperle riconoscere, conoscerne il funzionamento nel dettaglio, significa disporre di uno strumento straordinario per produrre ricchezze, beni, risorse, per mettere al lavoro la vita, regolando ad esempio il tasso di crescita delle popolazioni (un problema del resto attualissimo). Tutto questo è senz’altro corretto. Mentre è invece scorretto applicare questa categoria alla specifica situazione pandemica, per farne poi il motore di una contestazione radicale delle misure intraprese per fronteggiarla. Un conto è individuare in sede storico-teorica una discontinuità rispetto all’epoca pre-illuminista, relativa a una nuova forma di controllo che interviene a disciplinare il corpo sociale, secondo una logica di potere interessata al controllo disciplinare del corpo, come fonte di risorse politiche ed economiche. Altra cosa è applicare questa categoria a un’emergenza concreta, collocata a un altro livello di senso, rispetto al quale vi è un unico urgentissimo compito: quello della decodificazione funzionale al fine di individuare risposte il più possibile efficaci nel minore tempo possibile. Ripeto: senza per questo negare che la nozione di biopotere permetta di rendere visibili e coerenti tra di loro processi altrimenti irrelati e sottotraccia. Per quanto illuminante, una categoria non è mai neppure una mappa di quanto intende illustrare (nel caso specifico: lo stile di controllo sugli individui nell’epoca moderna e in quella attuale). Non solo, dunque, è lontana mille miglia dal poterne offrire una rappresentazione 1:1. Non permette neppure di dar conto esaustivamente della realtà di cui desidera comprendere il funzionamento. Poiché vi è sempre una tale esuberanza nel reale, e nelle dinamiche che strutturano la vita delle diverse società, che nessuna categoria riuscirà mai ad esaurire.
Dunque: nonostante la pertinenza della nozione di biopolitica (e di biopotere), la sua applicazione alle misure di contenimento della pandemia non aiuta a capire un bel niente. Soprattutto quando essa viene convocata, come accade di continuo, in chiave prevalentemente critica: dittatura sanitaria, esautoramento della sovranità del parlamento, dunque declino della rappresentanza, fine delle libertà, totalitarismo del controllo. Anche perché, in questo modo si finisce per disconoscere le conquiste, anche solo in termini di alleviamento delle sofferenze fisiche e di miglioramento delle condizioni materiali di vita, assicurate progressivamente da una organizzazione del sapere medico, clinico e sanitario che ha fatto propria la logica della governabilità biologica del corpo degli individui e della collettività. La politica della vita è infatti anche questo.
Con buona pace dei complottisti (in tutte le loro graduazioni), dobbiamo rassegnarci all’idea che nonostante i mezzi raffinatissimi a nostra disposizione per tracciare, calcolare, anticipare e pilotare tutto e tutti, nessun agglomerato di potere riuscirà mai a colonizzare completamente l’insieme della realtà sociale. Una cosa di questo tipo esiste solo nella testa dei filosofi o dei paranoici. E ovviamente anche dei filosofi con tendenze paranoiche. Se fosse così, ogni decisione, ogni misura intrapresa sarebbe sempre e solo la ripetizione della logica della matrice: tutto sempre già prevedibile e deciso. Per quanto rappresentata genialmente, con la tipica intuizione di chi coglie con profondità ciò che ci concerne, non siamo nella realtà raccontata dal film Matrix.
Benintesi, il cosiddetto Capitalismo della sorveglianza non è una fantasia. Ci siamo finiti dentro con l’innocenza dei bambini, tutti ben felici di comunicare, informarci, lavorare, divertirci con i mezzi tecnologici super-estetizzati messi a disposizione, aderendo come polli a una condizione in cui ognuno di noi è diventato pura forza lavoro non remunerata. A disposizione di mega-organizzazioni che, registrando in tempo reale le nostre azioni e inseguendo, per poi elaborare e rivendere al miglior offerente, le tracce lasciateci alle spalle, condizionano ciò che possiamo sapere, ciò che dobbiamo fare, ciò che ci è lecito sperare. Possiamo, tuttavia, concludere che questo modo di cogliere il reale esaurisca ogni suo aspetto?
Dire che l’obbligo di proteggersi, quando la situazione mostra di essere fuori controllo o non ancora risolta, sia l’esito automatico di un insieme di poteri che da ameno tre secoli preordinerebbero le nostre vite, esercitando un controllo disciplinare assoluto è di una miopia imbarazzante. Ancor di più, credere che esso si sia servito proprio di questa occorrenza drammatica, sopravvalutandola ad arte, con l’obiettivo cinico di imprimere un’ulteriore accelerazione alla sua volontà di dominio. Sarebbe come se, dinnanzi alla certezza dell’imminente crollo di una palazzina abitata, la decisione delle autorità di intervenire per una immediata messa in sicurezza fosse stigmatizzata come manifestazione perversa di quella tipica postura della modernità che consiste in un interventismo sradicato, iperattivo e predatorio nei confronti del mondo. Possiamo forse condannare le azioni preventive suggerite da questo rischio, rifacendoci alle critiche di chi (leggi Heidegger & Co.) rimprovera al nostro tempo di essere animato da un iperattivismo infondato che ha scordato ciò rispetto a cui varrebbe invece la pena impegnarsi? Tutte obiezioni corrette, ma sconvenienti se usate come argomento per non intervenire tempestivamente. Anche qui, come nel caso del virus, ad occupare la scena, chiedendo attenzione e risposte concrete, non sono i pensieri e i grandi quadri interpretativi. Sono esistenze in carne e ossa che ci rivolgono un appello; esistenze alle quali dobbiamo sempre risposte di aiuto concrete, se non vogliamo mancare l’appuntamento con la responsabilità e la solidarietà.
Con tutta l’ammirazione dovuta a figure di studiosi seri e impegnati come Agamben e Cacciari, è deludente constatare come siano anche loro caduti nel tranello. Succede anche ai buoni maestri.