A proposito del dibattito sulla riforma delle reti radiofoniche e oltre
In tutto il polverone sollevato dalla polemica cantonticinese sulla riforma proposta per le reti radiofoniche, credo che il vero problema sia: che cosa intendiamo per cultura. Io, personalmente, la penso così: per convertire alla cultura chi non legge, chi non ha mai messo piede in un museo, chi non sa distinguere Mozart da Bach o Charlie Parker da Sidney Bechet non conta tanto distinguere tra Rete 1 e Rete 2 – anche se io ascolto solo Rete 2 – quanto distinguere tra cultura e spazzatura. Non si legge per distrarsi ma, al contrario, per concentrarsi. Non si guarda un quadro per confermare la nostra visione del mondo, ma per metterla in crisi o per arricchire il nostro sguardo. Non si ascolta musica per assecondare la pigrizia mentale, ma per scoprire un mondo sconosciuto.
È invalso l’equivoco che bisognerebbe abbassare la cultura al popolo: ma ciò vuol dire non rispettare il “popolo”, che è fatto di persone intelligenti e sensibili. La mia opinione è che bisogna alzare il popolo alla cultura, perché nella cultura autentica sento qualcosa che riguarda tutti.
Qualcosa di universale di cui nessuno dovrebbe privarsi.
La gente comune, anche se magari non sembra, anela al nutrimento spirituale: ma gli uomini di cultura raramente sanno darglielo. Spesso non sanno parlare in modo chiaro, semplice (dico semplice, e non semplicistico, che è tutt’altra cosa). Non sanno comunicare l’importanza delle parole, delle idee, della bellezza.
Dunque, è questa la riforma (la rivoluzione?) che propongo, come ha già fatto, inascoltato, chi è venuto prima di me: la bellezza, la poesia, il pensiero per combattere la sciatteria, gli slogan, il vuoto mentale. A che serve un libro se non smuove qualcosa di importante dentro di noi? Non mi interessa il best-seller che assopisce la coscienza, nascondendo i mali del mondo. Non so che farmene dell’esteta che parla solo per sé stesso. L’arte è fatta per tutti, ma è una cosa seria, non un divertissement superficiale in un mondo che sembra andare a rotoli. L’arte non è questione di quantità, ma di qualità. Vorrei una prosa, una poesia, una musica in cui tutti possano esercitare la propria umanità. Perché la vita è troppo breve e preziosa per regalarla ai dissipatori.
A questo proposito cito uno scritto di Nicola Chiaromonte del 1962, quando io ero maestro elementare in una scuoletta di paese e mi affacciavo alla letteratura: uno scritto che mi sembra ancora d’attualità.
“E chi, tranne i laudatori e servitori del proprio tempo che oggi son massa, certo, ma non per questo hanno ragione, vorrà scambiare la gran produzione e il grande smercio di romanzi, di quadri, di film, per un rigoglio dell’arte? A uno sguardo non prevenuto, proprio questa gran produzione e questo grande smercio appaiono come il segno della svalutazione globale dell’arte – e più generalmente, della qualità – nel nostro tempo: il segno che non d’arte i più sentono il bisogno, né di vero gioco e di vera festa, ma di sfogo produttivo da una parte e di riempitivi del “tempo libero” dall’altra. Sterminata è oggi la produzione di passatempi, divertimenti e giocattoli per adulti: per questo riguardo la nostra non è più affatto la civiltà del lavoro, ma piuttosto del gioco sfrenato. Al tempo stesso diminuisce, in essa, il numero di quelli che son capaci di giocare sul serio: gli artisti”.