laR+ l’intervista

‘Israele sta vincendo una guerra da cui non otterrà nulla’

A un anno dall’attacco di Hamas, lo storico israeliano Ilan Pappé è pessimista: ‘Poca strategia sul campo e nessuna vera soluzione politica all’orizzonte’

Palestinesi esultano su un carro armato israeliano: è il 7 ottobre 2023
(Keystone)
7 ottobre 2024
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Ilan Pappé, storico israeliano, autore del recentissimo “Brevissima storia del conflitto tra Israele e Palestina” (Fazi Editore 2024) è la bestia nera accademica del governo Netanyahu. Rappresentante della corrente nota come “Nuova storiografia europea”, denuncia le derive bellicistiche del suo Paese, l’apartheid contro le popolazioni arabe, e si schiera apertamente per la creazione di uno Stato unico, non confessionale, dove ebrei e palestinesi avrebbero gli stessi diritti.

Un anno fa, il 7 ottobre, una data indelebile, la carneficina di un migliaio di israeliani nel Negev; un anno dopo decine di migliaia di palestinesi massacrati, Gaza ridotta a una montagna di macerie, e ora anche l’invasione del Libano. Cala sulla regione il tempo di Caino. Professore cominciamo proprio dal Paese dei cedri...

Gli israeliani stanno cercando di cambiare la realtà ricorrendo alla forza, incoraggiati sia dai successi riscontrati nei diversi assassinii tra cui quello di Nasrallah che dall’atteggiamento americano, critico ma che alla fine accetta quanto fa il governo Netanyahu. Ora assistiamo all’inizio dell’operazione in Libano, ma non sono certo che Israele abbia un’idea di come finirà. Vogliono occupare solo qualche chilometro impedendo alla gente di tornare, vogliono mantenere il controllo fino al fiume Litani ripetendo l’errore del 2000 o del 1982 rimanendo bloccati nel pantano libanese?


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Uomini di Hamas durante il rapimento degli ostaggi

Ma per Israele sembra già essere un successo...

Successo tattico non significa vittoria. C’è pochissima strategia e nessuna soluzione politica all’orizzonte. Personalmente vedo solo un deterioramento della situazione, succede ogni volta che nella regione assistiamo a un’escalation militare.

L’obiettivo ultimo potrebbe essere una guerra con l’Iran. Tutto sembra indicare che è quello che cerca Netanyahu

Quello che appare certo è che l’Iran la guerra non la vuole. In Israele invece ci sono diversi dirigenti politici che ritengono che stiamo vivendo un momento storico in cui vi è l’opportunità di colpire l’Iran eliminando il pericolo che a loro giudizio costituisce quel Paese. Penso che nell’esercito israeliano ci siano ancora persone abbastanza responsabili per dissentire. Se ci sarà una guerra dipenderà dall’esito del confronto tra queste due visioni, di certo non dall’Iran che la guerra proprio non la vuole. Israele cerca un riscatto definitivo dopo il fallimento del 7 ottobre, dimostrando di essere lo Stato più forte, quello in grado di spaventare tutti i vicini. Ma non sono certo che se dovesse attaccare, raggiungerà questo obiettivo.

Lei ha sentito l’urgenza di pubblicare un nuovo libro, una sintesi storica che a suo avviso ci aiuterebbe a capire l’origine del male... Dove la situiamo?

Le radici di quanto succede sono da ricercare nell’idea di costruire uno Stato ebraico nel bel mezzo del mondo arabo. Indipendentemente dal fatto che lo si giustifichi o no, questo progetto ha creato un’enorme crisi. Si è spostato un problema europeo ed ebraico nel mondo arabo, del tutto estraneo a quanto successo in Europa. Si è voluta imporre in Palestina una realtà costruita in Europa. Oltre un secolo più tardi, il problema è rimasto lo stesso, irrisolto. Israele è una potenza militare e tecnologica, certo. Ma non è riuscita a farsi accettare dai palestinesi anche perché non ha mai offerto loro una soluzione accettabile e realistica.


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Un razzo partito da Gaza il 7 ottobre 2023 e diretto verso Israele

Ma non pensa che vi siano stati momenti favorevoli, in cui i palestinesi hanno di fatto sprecato l’occasione di ottenere qualcosa, la loro autonomia, il loro Stato?
Penso in particolare a Camp David II nel 2000 e al fatto che Arafat avesse rifiutato l’offerta del premier Ehud Barak...

No, guardi, non si è trattato di una vera offerta, di una proposta di soluzione. Di fatto Israele ha proposto ai palestinesi la creazione di piccoli “bantustan”, come nel Sudafrica dell’apartheid, in parte della Cisgiordania, senza collegamenti con la striscia di Gaza, senza una vera capitale, senza una soluzione sulla questione dei rifugiati. Non può sorprendere il fatto che i palestinesi non potessero accettare una tale proposta.

Dunque secondo lei non c’è mai stata la volontà di concedere uno Stato ai palestinesi?

No, Israele non ha mai avuto intenzione di offrire ai palestinesi un vero Stato sovrano indipendente. E stiamo parlando di appena un 20% circa della Palestina storica.

La soluzione dei due Stati, una cortina fumogena? Un progetto già morto in partenza?

Sì, la soluzione dei due Stati è morta e sepolta. Dobbiamo pensare a soluzioni basate sull’eguaglianza dei diritti.

Ad esempio?

Ad esempio un unico Stato democratico. Non vi sono alternative. Certo è una soluzione molto difficile da immaginare in un contesto di odio e massacri. Ma è l’unico modo per garantire la diminuzione o la fine della violenza e di rispettare quei milioni di palestinesi che per oltre un secolo si sono visti privati di diritti fondamentali, cittadini di serie B nella loro stessa terra, dal fiume al mare.

Immagino che il progetto di uno Stato democratico unico non sia molto popolare in Israele...

Certo, ma neanche la soluzione dei due Stati. La comunità internazionale deve decidere se per islamofobia o odio per gli arabi deve difendere Israele a tutti i costi, oppure se – come scrivo nel mio libro – si voglia garantire a tutti i cittadini, ebrei e arabi, gli stessi diritti. Senza dunque nessuna discriminazione basata su nazionalità, genere, religione ecc... La netta maggioranza dei palestinesi accetterebbe questa ipotesi, la maggioranza degli ebrei israeliani invece la respingerebbe. Però questa è l’unica alternativa a una guerra infinita e a un futuro di distruzione.


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Benyamin Netanyahu e una mappa della Striscia di Gaza

Però il campo della Pace, del dialogo, in Israele è ormai pressoché scomparso. Sinistra e pacifisti sono ridotti a poco o nulla, rispetto a un trentina di anni fa...

Sì è quanto spiego nel libro. La vera questione è che l’idea di uno Stato ebraico e quella della libertà per i palestinesi sono inconciliabili. E la sinistra cercava proprio di farle conciliare: uno Stato ebraico assieme a un po’ di diritti per i palestinesi. Gli elettori israeliani non sono stupidi, sanno benissimo che non può funzionare. Dal 2000 la maggioranza degli elettori ha ben capito che possono esserci solo due opzioni: uno Stato ebraico razzista basato sull’etnicità, oppure uno Stato democratico non ebraico. E preferiscono vivere in uno Stato razzista a base etnica, temono uno Stato democratico dove vivrebbero tutti assieme. La sinistra ha sempre pensato a una terza via che conciliasse etnia e democrazia. Ma non può funzionare.

A proposito di razzismo, lei non sta dimenticando quello dei palestinesi che seguono Hamas ad esempio?

Non credo che questa sia la lettura giusta. Il successo di Hamas è legato alla colonizzazione e occupazione delle terre, non all’antisemitismo. Se l’Italia fosse stata occupata dalla Germania nazista per un secolo, tutti avrebbero cercato di lottare contro l’occupazione, alcuni per ragioni religiose, altri per difendere la democrazia secolare.

Tuttavia non va negato il problema dell’islamismo politico nel mondo arabo. Non mi pare vada sottovalutato.

Certo, non vi è alcun dubbio che questo problema esista. Ma Hamas, il Jihad islamico e il Fatah esprimono in primis la volontà della popolazione palestinese di porre fine all’occupazione e alla colonizzazione. È del tutto secondario il fatto che siano comunisti che sognano uno Stato socialista, o islamisti che vorrebbero uno Stato teocratico. Credo che in pochi in Svizzera o Italia si rendano conto di quel che vuol dire per i palestinesi vivere sotto l’occupazione israeliana. Non parliamo di 2 o 4 anni e neanche di 50 anni, parliamo di 100 anni di occupazione in diverse modalità.

Il fanatismo di Hamas non è comunque un dettaglio...

Il fanatismo di Hamas avrebbe molto meno presa sulla popolazione se i palestinesi potessero vivere liberi e indipendenti.

Da dove situiamo l’origine del massacro del 7 ottobre? Il 7 ottobre? Prima? Camp David II, l’uccisione di Rabin, il fallimento di Oslo, la Guerra dei sei giorni?

Secondo me dobbiamo risalire al 1948. Perché è in quell’anno che Israele creò la striscia di Gaza. Poche persone sanno che prima non c’era la striscia di Gaza. Fino a quell’anno Gaza era una città cosmopolita, dove vivevano musulmani, ebrei, cristiani. Una bella città con attorno villaggi di pastori. Ma a causa della pulizia etnica attuata in Palestina nel 1948, Israele ha fatto confluire nell’area di Gaza centinaia di migliaia di palestinesi, creando quella striscia che vediamo ancora oggi, di fatto il più grande campo profughi del mondo, con centinaia di migliaia di persone che non potevano andare né in Egitto né in Israele. Il 70% degli abitanti di Gaza sono rifugiati. Da 76 anni i palestinesi di Gaza vivono in una prigione. È una pentola a vapore sempre pronta a esplodere, e la cosa non è per nulla sorprendente.


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Contestazione anti-israeliana

Nel suo libro dice che siamo all’inizio della fine del sionismo, che la società israeliana sta implodendo. La cronaca sembra dirci altra cosa: Israele sta vincendo la guerra contro i suoi principali nemici, Hamas e Hezbollah...

Quello che lei dice non ha molto senso, perché gli israeliani possono dire: abbiamo vinto contro Hamas. Ok. Ma il problema è: cosa facciamo ora con Gaza? Ogni giorno soldati israeliani vengono uccisi a Gaza: è questo che significa vincere la guerra? Cosa facciamo di Gaza? Ne facciamo una parte dello Stato ebraico? Non hanno vinto la guerra a Gaza, hanno indebolito militarmente Hamas, non hanno liberato gli ostaggi e hanno creato le condizioni per una guerra che durerà almeno un altro quarto di secolo.

E in Libano?

La stessa cosa. Se pensano di aver eliminato Hezbollah uccidendo Nasrallah, si sbagliano. La storia dei movimenti come Hezbollah ci insegna che ucciso un capo se ne fa subito un altro. Non hanno vinto a Gaza: per controllare la striscia dovranno ricorrere alla forza, alla forza e ancora alla forza. Cosa ha oggi da proporre Israele? Più guerra, più sangue, più vittime. Nessuna soluzione politica.

Professore, lei si è schierato per il boicottaggio delle istituzioni accademiche e culturali del suo Paese. Come Noam Chomsky, in Israele in molti la considerano un traditore... anche perché il boicottaggio se ha ragion d’essere dovrebbe essere esteso a molti altri Paesi...

A dire il vero molti Paesi si sono visti imporre sanzioni dall’Occidente: la Russia, l’Iran, la Corea del Nord ad esempio. Dal mio punto di vista sanzioni e boicottaggio sono uno strumento non violento per denunciare l’occupazione e la colonizzazione da parte di Israele. Non dimentichiamo che le sanzioni e il boicottaggio hanno svolto un ruolo importante nella fine dell’apartheid in Sudafrica. Si tratta di un messaggio chiaro a Israele: non puoi continuare a violare quotidianamente i diritti umani e civili di milioni di persone, solo perché sono palestinesi.

Lei considera Israele un Paese coloniale. Dal punto di vista storico la definizione regge?

Nel caso di Israele parlo di colonialismo di insediamento, che a differenza del colonialismo classico rimane per sempre nel Paese colonizzato. Il colonialismo insediativo consiste nella conquista da parte di europei che se ne vanno dal continente per ragioni economiche, culturali, religiose e si insediano in un nuovo Paese, a scapito della popolazione locale. È successo negli Stati Uniti con lo sterminio dei nativi, è successo anche in Palestina con la pulizia etnica contro la popolazione araba.


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Manifestazione pro-Israele

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