laR+ america a pezzi

Ninna nanna americana

Dal muro che divide Usa e Messico, attraverso 11 Stati, fino a un concerto di Leon Bridges a Washington: con le elezioni finisce un viaggio lungo due anni

Il muro tra San Diego e Tijuana sul lato messicano
(R. Scarcella)

Bridges, not walls. Ponti, non muri: è un modo diretto e – ammettiamolo – anche un po’ abusato di illustrare due visioni del mondo. Però è anche il perfetto, letterale riassunto di due anni a spasso per gli Stati Uniti. Un viaggio volutamente iniziato davanti al muro che divide la città messicana di Tijuana da San Diego e che – per puro caso –, termina, proprio mentre questa edizione del giornale va in stampa, con un concerto di Leon Bridges a Washington.

Bridges è un soulman nato fuori tempo massimo: ha 35 anni, ma ascoltare la sua voce e la sua musica è un dolce ritorno all’età dell’innocenza, nostra e dell’America. Quando lo ascolti ti vengono in mente Sam Cooke e Otis Redding, Etta James e Nina Simone, i drive-in, le Cadillac color pastello, le uniformi dei college, la tv a tubo catodico che trasmette “Happy Days”. Bridges viene da Atlanta, una delle città simbolo dell’America nera. Ad aprire il suo concerto ci saranno gli Hermanos Gutiérrez, una coppia di fratelli che suona musica latina strumentale: la loro madre è ecuadoriana, il padre è svizzero. Sono cresciuti a Zurigo ascoltando il compositore argentino Gustavo Santaolalla e l’italiano Ennio Morricone. Sono simbolo di culture che danno e prendono l’una dall’altra, che possono coesistere. Ponti, non muri.


R. Scarcella
Il ponte di Selma

Nell’ottobre del 2022, alla vigilia delle elezioni di Midterm, siamo venuti a prendere la temperatura all’America, in particolare all’Ovest: abbiamo raccontato una San Francisco ormai invasa dagli homeless, che occupano perfino la strada davanti alla City Hall senza che nessuno possa farci molto; abbiamo visto da vicino l’inquietante vacuità di Las Vegas, attraversato l’infinita Los Angeles, una metropoli sfuggita di mano e che non pare nemmeno più adatta all’uomo, siamo stati a Burbank, la città con la più alta densità di armerie per abitanti (14 per 105mila), nei grandi parchi dove l’America torna a respirare e alle fiere di paese a vedere i concorsi del chili più buono e più piccante. Infine abbiamo seguito le elezioni di metà mandato, in cui i democratici andarono meglio del previsto e i repubblicani ancora annaspavano. Una settimana dopo Donald Trump annunciò la sua candidatura alla presidenza. Travolto dagli scandali, con un concreto rischio di finire in galera, quella mossa appariva solo un disperato tentativo di restare a galla, nulla più.

Emozioni contrastanti

Spaventati dalle modalità, dai prezzi gonfiati e dalla palpabile inquietudine degli americani della Costa Ovest, l’anno scorso ci siamo diretti a sud, partendo dal Kentucky, giù giù fino al Mississippi, la Louisiana e l’Alabama, visitando la casa dove nacque Mohammed Ali, il motel dove fu ucciso Martin Luther King, la Graceland di Elvis e le ex piantagioni di cotone. Lì è nata l’idea di ‘America a pezzi’, una serie a puntate in cui abbiamo raccontato, sulle pagine di questo giornale, una terra piena di contraddizioni, ancora incastrata in un processo di integrazione irrisolto.

L’emozione di attraversare i luoghi dei diritti civili, dalla fermata dell’autobus di Rosa Parks al ponte di Selma, è stata resa più amara dallo scempio degli sfollati di Katrina, che ancora pagano le conseguenze dell’uragano che travolse New Orleans, non ieri, ma quasi vent’anni fa. Un’America più umana: generosa e allo stesso tempo sospettosa. La vivace spontaneità di certe serate passate, da unico forestiero, in bar di luoghi sperduti che mi hanno saputo accogliere e abbracciare con calore è stata raggelata dagli sguardi torvi della proprietaria di una stazione di servizio in un incrocio di strade del Tennessee, un posto che – come scrissi già allora – “è talmente qualunque che sarebbe il nulla se non ci avessero disegnato un po’ d’asfalto intorno”. A difesa di quel nulla, la donna aveva messo sé stessa e un cartello: “American owned, clean restrooms” (“Proprietari americani, bagni puliti”). Si sentiva minacciata da tutto e tutti e la sua chiusura era totale, nei gesti e nelle parole. Muri, non ponti. E intanto la candidatura di Trump iniziava a diventare una cosa seria.


R. Scarcella
In attesa del comizio di Trump a Milwaukee

Siamo tornati a ridosso delle elezioni, dopo la staffetta Biden-Harris e con un Trump che portava avanti comizi che sembravano concerti di una rockstar. I sondaggi davano un’America indecisa, in bilico. Impossibile capire, anche sul campo, chi l’avrebbe spuntata. Perfino l’infallibile Door County, in Wisconsin (che dal 1980 a oggi aveva votato solo una volta per il candidato che poi non aveva vinto le presidenziali e dal 1996 ci azzeccava sempre) questa volta ha sbagliato, scegliendo Harris.

La salvezza dentro i diner

Una volta in New Hamsphire, a Dixville Notch, il piccolo insediamento che per primo apre e chiude le elezioni nel Paese, ho avuto per la prima volta la sensazione che l’America guardasse a Trump. Nel 2020 i cinque abitanti del villaggio votarono tutti per Biden. Martedì, a mezzanotte è finita 3-3 (si è aggiunto, nel frattempo, un elettore). Non è certo un campione statistico significativo (basti pensare che nel 1960 votarono tutti e nove per Nixon e alla Casa Bianca andò Kennedy), ma era un segnale che faceva il paio con l’entusiasmo smodato, quasi carnale degli elettori di Trump. Sembrava, lì per lì, solo il riflesso di un elettorato più caciarone e scomposto, era la punta di una marea che nessuno ha potuto o voluto prevedere. Il mattino dopo le elezioni a Washington regnava un calma irreale, come dopo ogni grande tempesta che squassa tutto.


R. Scarcella
A Beatty, all’ingresso della Valle della Morte

Si parla spesso di America arrabbiata, forse la parola più esatta è nervosa. Un nervosismo percepibile in tutti e ovunque. Solo in un posto ho ritrovato la pace negli occhi e nei gesti degli americani, i vecchi diner lungo le strade con le cameriere col nome appuntato sul petto e la musica anni 50: i precursori di Leon Bridges. Hanno un effetto calmante, quasi una ninna nanna.

Al concerto di Bridges aspetterò soprattutto “River”, una canzone che è anche una preghiera antica, ispirata ai gospel. La struggente versione video inizia con una ragazza che canticchia sottovoce, prosegue con il pianto di un bambino e termina con una pioggia catartica. Parla di fede, per chi ci crede, di errori fatti, del riappropriarsi di sé. E di rinascite. Bridges, not walls.