laR+ La ricorrenza

Da Ya Think I’m Still Sexy? (ottant’anni di Rod Stewart)

Parafrasiamo uno dei suoi brani e celebriamo musica ed eccessi di un londinese che tifa Celtic Glasgow, e la sua voce da 120 milioni di album

Sir Roderick David Stewart, detto Rod
(Keystone)
10 gennaio 2025
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1.

Rod the Mod in forma strepitosa

di Paolo Biamonte

“A 80 anni, sei un giovane. A 90, se i tuoi antenati ti invitano in cielo chiedi loro di aspettare fino a che non arrivi a 100. Poi puoi prendere in considerazione la cosa”. Questa è la frase che si legge all’ingresso del villaggio di Ogimi, il paesino nell’isola di Okinawa, in Giappone, dove vive la più alta concentrazione di centenari del mondo. A sentire gli scienziati, la ragione di questa longevità starebbe nel clima molto dolce e nello stile di vita sano e particolarmente rilassato: ma che spiegazione si può dare alla longevità e alla invidiabile capacità di mantenersi in forma di quella formidabile generazione di rocker inglesi nati nei primi anni 40 che di sicuro non sono stati un modello di vita né sano né tantomeno rilassato?

Oggi Sir Roderick David Stewart, per tutti Rod, compie ottant’anni e anche lui arriva alla sua veneranda età in una forma clamorosa: Paul McCartney, che ne ha 83, ha appena finito un tour mondiale, Mick Jagger ne ha 82 e ancora “balla come una farfalla e punge come un’ape” per dirla con Muhammad Alì, Ringo Starr ne ha 85 ed è stato l’ospite ben saldo e sorridente del concertone finale di Paul, Ron Wood, il ragazzino del gruppo, che ne ha 78, al concerto di McCartney a Londra, dove ha suonato, c’è andato in metropolitana. E l’elenco è lungo: ora se si mettessero insieme i litri di alcool consumati in una vita solo da Rod Stewart il villaggio di Ogimi sarebbe sterminato in pochi giorni.

Standard & Swing

Evidentemente per chi ha scelto di vivere il rock’n’roll nell’Inghilterra del dopoguerra era previsto un bonus di lunga vita salvo incidenti di percorso, se si possono chiamare così le conseguenze estreme di certi abusi. Sir Rod, che nonostante sia nato a Londra è tifoso del Celtic di Glasgow, in omaggio ai natali scozzesi del padre (che peraltro tifava per l’Hibernian di Edimburgo) e da ragazzo ha deciso di fare il cantante invece del calciatore perché giocare a football e ubriacarsi era troppo più difficile (lo ha raccontato nella sua autobiografia), da qualche decennio fa la vita dorata della star a Los Angeles e si è adagiato in una squisita routine di standard e Swing. La fortuna lo ha dotato di un timbro di voce rugoso e irresistibile e di una vocazione per l’interpretazione della musica black: si è formato nella Londra dei Mod (lo chiamavano Rod The Mod) e in quel giro di club dove di fatto è nato il rock inglese. Quando, dopo il Jeff Beck Group, è entrato nei Faces è cominciata la sua ascesa verso lo star system: all’inizio la band suonava una originalissima miscela di Folk e Blues che progressivamente è andata sempre più verso il Pop.

Grazie ai Faces Rod Stewart ha sfondato in America e da lì è cominciata la sua carriera solista da, pare, 120 milioni di dischi venduti. Grazie ai Faces il suo amico di sempre Ronnie Wood è entrato nei Rolling Stones. Ora alle spalle ha sessant’anni di carriera, con qualche concessione al kitsch, un’impressionante serie di successi, otto figli da cinque madri diverse, qualche divorzio molto costoso: ma quel che più conta è che davanti a sé ha un’agenda piena di impegni.


Keystone
A destra, con i Faces, nel 1974

2.

A volte basta uno stormo di uccelli

di Beppe Donadio

“Malgrado la mia nascita tardiva, venni accolto con grande calore, almeno dai sei membri della mia cerchia familiare più stretta. Da Hitler un po’ meno”. Nato da una coppia di quasi 40enni la sera del 4 gennaio 1945, Rod Stewart nasce non certo nell’agio in una villetta a schiera in Archie Road, nella parte nord di Londra, partorito in una stanza in cui “le finestre erano esplose così tante volte a causa delle bombe tedesche che mio padre le aveva rivestite di assi per contenere le spese”. Sempre a causa dell’età dei genitori, si è sempre considerato quello che nel tennis chiamerebbero “un errore non forzato”, o anche “una palese svista nel reparto pianificazione familiare”. Viste le premesse, è inutile specificare che ‘Rod Stewart – The Autobiography’ (2012) è un libro caratterizzato da un alto tasso di umorismo british, anche solo per il capitolo intero dedicato ai capelli (“Ho una cosa in comune con la regina: entrambi abbiamo portato più o meno la stessa acconciatura per gli ultimi quarant’anni”). Ma il libro è anche il racconto di un rapporto con la musica diverso dalle star folgorate sulla via di Las Vegas da Elvis Presley.

Stante la passione per il calcio, la scintilla per il rock non scocca in Rod Stewart nemmeno quando il fratello Don (“era il vero cantante della famiglia, come amano rammentarmi”) lo porta a vedere Bill Haley & The Comets, quelli di ‘Rock Around The Clock’; di più fa una chitarra spagnola regalatagli dal padre per il 15esimo compleanno, anche se Rod voleva un trenino elettrico (e una volta adulto si dice affetto da dipendenza da modellismo). Prova come tanti a suonare lo skiffle, un miscuglio di generi che al tempo va tanto di moda, e si fa le ossa nei Kool Kats, la sua prima band, con le canzoni di Lonnie Donegan che è la voce del momento. Ma non sono né Al Jolson, né Eddie Cochran e né Sam Cooke, i suoi ascolti di gioventù, a cambiargli la vita, bensì qualcosa di così dirompente che va oltre ogni sensazione, oltre anche la sua prima volta, quando è abbordato da un donnone sotto il tendone della birra del Beaulieu Jazz Festival del 1961, dettagli finiti poi nel testo di ‘Maggie May’. “Quel breve momento sull’erba”, scrive l’artista, “non è paragonabile a quanto mi accadde nel 1962, quando ascoltai il primo disco di Bob Dylan. Quello sì che mi fece franare il terreno sotto i piedi”.


Keystone
Zurigo, Hallenstadion, 1991

Amiche per sempre

“Con Bowie non ho idea di quale fosse il problema, ma che ci fosse un problema era evidente. Anni dopo, nelle interviste, mi avrebbe riempito di frecciate sarcastiche: la più famosa era ‘la checca da marciapiede del rock’, ma va detto che quando mi chiamò così era strafatto di coca. Marc e Rod, invece, li adoravo”. Marc è Marc Bolan, Rod è Rod Stewart, Bowie è David Bowie nei ricordi di Elton John tratti dall’autobiografia ‘Me Elton John’. “Musicalmente eravamo molto diversi, ma in un certo senso avevamo le stesse radici”, scrive il pianista. “Eravamo tutti londinesi proletari, e avevamo passato gli anni Sessanta ad arrancare nel circuito dei locali senza arrivare da nessuna parte”.

Nel suo libro, Sir Elton loda la “sorprendente ironia camp” dell’amico Rod, nonostante la sua “lunga e documentata ossessione per le bionde con le gambe lunghe”. Sin dagli anni Settanta, per un’abitudine estesa ad alcuni colleghi e che ancora rimane tale, i due si chiamano con nomi femminili: Elton è Sharon, Rod è Phyllis. L’amico Freddie Mercury era Melina (dall’attrice greca Melina Mercouri), e all’insaputa di entrambi, Brian May era la Signora May e Michael Jackson era Mahalia, dalla cantante Mahalia Jackson. L’amicizia tra Elton e Rod viene descritta come “cinquant’anni di scherzi”: quando la stampa inizia a chiedersi se il pianista perda i capelli e porti il parrucchino, Rod gli invia un casco da parrucchiere con tutto il piedistallo; il pianista lo ricambia con un deambulatore glitterato. A inizio anni Ottanta, Rod noleggia un dirigibile con sopra la propria faccia per lanciare il concerto londinese a Earls Court, esclusivo quartiere del borgo reale di Kensington e Chelsea; Elton ordina al proprio management di abbatterlo (un’ora dopo, al telefono: “Sei stata tu vero, stupida?”). A parti inverse, anni più tardi, la gigantografia raffigurante Elton, giusto di fronte all’Olympia di Parigi, sparisce poco dopo l’affissione. “Che peccato per il tuo striscione, cara. Ho sentito che non è rimasto su nemmeno cinque minuti. Scommetto che non hai fatto in tempo a vederlo”. L’elenco di aneddoti include anche l’autoinvito di Sir Elton al concerto di Sir Rod alla Wembley Arena, correva l’anno 1990: “Mi presentai senza preavviso vestito da donna e mi sedetti in braccio a lui mentre tentava di cantare ‘You’re In My Heart’. Rovinare la vita a Rod mi è sempre sembrato un hobby irresistibile”.

Il rapporto tra i due, iniziato nel 1970 quando Rod volle registrare una cover di ‘Country Comfort’ da ‘Tumbleweed Connection’, il terzo disco di Elton John, prosegue oggi con le stesse dinamiche di sempre: “Ancora adesso, quando mi accorgo che un suo album sta vendendo più del mio – dice il pianista – so che da un giorno all’altro riceverò una e-mail di questo tenore: ‘Ciao Sharon, volevo solo farti sapere quanto mi dispiace che il tuo disco non sia nemmeno entrato nella Top 100, cara. Un vero peccato che il mio stia andando così bene. Baci, Phyllis’”.


Keystone
A sinistra Sharon, a destra Phyllis

La discomusic

Il racconto di camere d’albergo vandalizzate, le risse e i pestaggi giunti fino a noi (a Palm Beach, nel 2019, gli Stewart padre e figlio patteggiarono un’ammenda giudiziaria per aver pestato un buttafuori) sono parte integrante della carriera di Rod Stewart, le cui gesta giù dal palco non dovrebbero interessarci più della grande musica che ha cantato, sempre che non siamo il padrone dell’esercizio o la guardia giurata alla quale l’artista un giorno mimò un saluto nazista con la mano destra, portandosi l’indice sotto il naso con la sinistra.

Sopravvissuto a un cancro alla prostata, a uno alla tiroide, a un tumore benigno alle corde vocali e ai fusi orari, Rod Stewart è stato perdonato in tutto, fatta eccezione per ‘Da Ya Think I’m Sexy?’, hit del 1978 che apre l’album ‘Blondes Have More Fun’ e per la quale fu accusato di essersi venduto alla discomusic. I fan lo perdonarono anche quando si venne a sapere che ‘Da Ya Think I’m Sexy?’ era un po’ troppo simile a ‘Taj Mahal’ del brasiliano Jorge Ben, che sguinzagliò gli avvocati e la causa per violazione della proprietà artistica si risolse ‘amichevolmente’ per l’ammissione da parte dell’omologo britannico del verificarsi di un “plagio inconscio”. Per redimersi da ogni altro peccato legato a quel tormentone, Rod girò tutti i diritti d’autore dell’album all’Unicef. Non è dato sapere invece cosa pensò Bobby Womack del fatto che la linea di sintetizzatori che caratterizza il pezzo viene dalla sua ‘(If You Want My Love) Put Something Down On It’, per ammissione stessa di Stewart.

Plagi inconsci a parte, la sintesi di una vita da sopravvissuto del rock sta all’inizio del libro ed è il racconto di un aereo con Rod Stewart sopra, che nel 1995 partì dalla Svezia alla fine di un concerto e che a causa di uno stormo di uccelli per poco non gli fece fare la fine di John Denver, caduto col suo jet privato nelle acque della Baia di Monterey, o di Buddy Holly, precipitato in un campo di grano dell’Iowa: “Per buona parte del viaggio – dice Rod della sua vita –, è stato un volo dotato di tutte le comodità. Una volta ogni tanto, però, l’aereo si è imbattuto in un’oca. E in qualche modo, ogni volta che questo è successo me la sono cavata e sono ancora qui a raccontarla”.