Le lettere pseudofilosofiche del serial killer nella serie dei due fratelli romani, che sconfina troppo spesso in un grottesco infantile, semplicistico
Una volta ho visto i fratelli D’Innocenzo per strada, a Roma. Uno dei due stava litigando con una terza persona in giacca e cravatta, mentre l’altro la tratteneva per la giacca e provava a fare da paciere. Ha prevalso quello più ragionevole e alla fine sono entrati tutti e tre e insieme nel palazzo davanti a cui stavamo. Guardando ‘Dostoevskij’, la loro nuova miniserie di sei puntate presentata al festival di Berlino la scorsa estate e adesso disponibile su Sky, mi sono chiesto quale dei due sia quello a voler far scappare gli spettatori e quale dei due sia quello che prova a trattenerli. Quale dei due litiga col cinema, con l’arte di raccontare storie con le immagini, e quale dei due tutto sommato ci stia provando in modo onesto.
‘Dostoevskij’ parla di Enzo Vitello (Filippo Timi), un poliziotto che indaga su un serial killer chiamato come il romanziere russo perché lascia, sul luogo del delitto, lunghe lettere pseudofilosofiche. Se la prende con gente a caso, gente normale, che uccide in modo sadico. Nelle lettere scrive, in sostanza, che la vita fa schifo, gli esseri umani sono condannati all’infelicità e la morte è l’unica via d’uscita. Al poliziotto la retorica dell’assassino piace, fa risuonare qualcosa al suo interno dato che è già piuttosto depresso di suo. Arriva al punto da lasciare anche lui dei messaggi all’assassino, chiedendogli di continuare a scrivere e, quindi, a uccidere. Lentamente il poliziotto romperà tutti i (deboli) legami affettivi che aveva e perderà tutta la (poca) umanità che gli restava.
Dirò subito che a molti ‘Dostoevskij’ è piaciuta. L’argomento principale a favore di Damiano e Fabio D’Innocenzo è che “in Italia prodotti così non se ne vedono”, che finalmente c’è una serie al livello di quelle americane. Almeno dal punto di vista estetico mi sento di dare una parte di ragione a questo argomento. Sono molto belli i paesaggi intorno a Tivoli e quelli del litorale romano dove è girata la serie, c’è qualcosa di poetico e sincero nello sguardo dei D’Innocenzo (e di Matteo Cocco che ha curato la fotografia) su quella decadenza: baracche a bordo fiume, commissariati con l’intonaco cadente, strade strette da palazzi dormitorio, spiagge desertiche d’inverno. Qua e là c’è qualche bella inquadratura – un cane ripreso da vicino come in una foto di Antoine D’Agata; un bel primo piano della faccia da gomma americana masticata e attaccata sotto a una panchina di Filippo Timi – o addirittura qualche bella scena che sembra dare speranza al prosieguo della serie.
Ma sono briciole di talento su un tappeto di arroganza e ingenuo esistenzialismo. E poi, anche qui, c’è una contraddizione stilistica non indifferente, che mi riporta a quella volta che li ho visti per strada: quale dei due fratelli D’Innocenzo ha scelto di girare in 16mm, dando una grana ruvida quasi da snuff movie alle immagini, e quale dei due ha scelto di aggiungere finte bruciature in digitale dissolvendo così ogni illusione di autenticità?
In generale c’è una distanza che si è fatta sempre più grande nel tempo – dalla ‘Terra dell’Abbondanza’ a ‘Favolacce’ ad ‘America Latina’ e adesso a ‘Dostoevskij’ – tra le ambizioni di Damiano e Fabio D’Innocenzo e la loro capacità, effettivamente, di perturbare i propri spettatori e non solo, puerilmente, provocarli. Nonostante il tono cupo e serioso, l’infatuazione del detective per il serial killer ha qualcosa di immaturo, il loro rapporto somiglia a quello di due studenti liceali che hanno appena scoperto Nietzsche e pensano di essere gli unici due al mondo ad averlo capito davvero. Questo vale anche per i fratelli d’Innocenzo, entrambi. Al di là del fumo di un pensiero esistenzialista ormai più che datato, c’è solo il loro sadismo, la collezione di immagini pensate per sconvolgere il sistema di valori degli spettatori borghesi ma che, in realtà, non fanno molto di più che infastidire. Ogni loro idea è al tempo stesso banale e irritante: la prima puntata inizia con il tentativo di suicidio del poliziotto (per farci capire che sta male), continua con una rissa senza senso in un commissariato e immagini a caso di cadaveri, tra cui quello di una ragazzina con un foro di proiettile in fronte, così, tanto per dare fastidio; poi Enzo ha un confronto con un pedofilo a cui dice che “deve essere stato bello inchiappettarsi dei bambini delle Elementari”, ma chissà se ne è valsa la pena farsi la galera, e poi lo pesta in una stanza del commissariato che lascia col pavimento pieno di sangue. Poi finisce in bellezza, con delle interessantissime immagini di una colonscopia. E questa è solo la prima puntata.
Forse la cosa che rende l’idea della distanza tra le pretese dei due registi-sceneggiatori e l’effettiva realizzazione delle loro idee è il rapporto tra Enzo Vitello e la figlia Ambra (Carlotta Gamba), una ragazza sulla ventina con problemi di droga. Anni fa lui l’ha abbandonata, non capiamo esattamente perché, né per quanto tempo, fatto sta che adesso lei lo odia. In una scena particolare, dopo un piccolo ravvicinamento, lei gli rinfaccia, in mezzo a una crisi di pianto che le rende difficile parlare, di quando aveva sei anni e il padre non si è presentato al suo compleanno. Lei gli dice una cosa che denota un minimo di acutezza psicologica – qualche vero trauma, dietro la fuffa, ci sta sempre – ovvero che anche se la madre gli aveva detto che lui sarebbe venuto, lei a sei anni già sapeva che non era vero. Quanto è triste che una bambina di sei anni sia già così consapevole dell’assenza del proprio padre?
Però ai fratelli D’Innocenzo non basta. Allora aggiungono un dettaglio francamente ridicolo, che denota tutta la loro incapacità di presa sulla vita reale, concreta: quel giorno, con tutti i suoi risparmi di seienne, lei gli aveva comprato una Fanta. Come tutti i dialoghi anche questa scena sembra una brutta traduzione dall’inglese: “Era il mio fottuto compleanno”, dice Ambra. Chi usa parole come “stronzone”, o “gruzzoletto” o ancora “inchiappettarsi”, nella vita reale?
Qualche scena dopo, senza una vera ragione, Ambra manda a tutti i colleghi del padre, e poi anche al padre stesso, un suo video intimo in cui scopa insieme a due uomini. I due uomini hanno la pelle nera, per nessun’altra ragione se non per il fatto che i fratelli D’Innocenzo devono aver pensato sia più scandaloso se a scopare con una ragazza bionda che sembra giovanissima siano due persone con la pelle nera.
Il gusto per l’esagerazione dei fratelli d’Innocenzo sconfina troppo spesso in un grottesco infantile, semplicistico. Il loro punto di partenza magari è scioccare lo spettatore, ma diventano paradossalmente consolatori tanto sono imprecisi nel modo in cui raccontano la loro storia. Nessuno si può davvero rivedere nei loro personaggi, non fino in fondo almeno, tanto li hanno privati di qualsiasi cosa che non fosse una pesantezza più esteriore che interiore. Non sappiamo niente di nessuno di loro ma non è importante, non sono personaggi in carne e ossa ma semplici proiezioni di un’idea astratta sul mondo. Se nella vita reale ormai sappiamo che i mostri non esistono, che a compiere crimini tremendi sono bravi ragazzi, sereni e tranquilli all’apparenza, perfettamente funzionanti, nel mondo dei fratelli D’Innocenzo sembra invece che siano tutti dei mostri. I buoni, i cattivi, i protagonisti e le comparse. Soprattutto, i due registi.