Venerdì 13 dicembre al Teatro Sociale di Bellinzona, il terzo atto della trilogia del regista, scrittore e drammaturgo italiano, ‘cantore’ degli ultimi
Il titolo completo è ‘Rumba - L’asino e il bue del presepe di San Francesco nel parcheggio del supermercato’, di e con Ascanio Celestini. Attore, regista, scrittore e drammaturgo, Celestini è uno dei punti di riferimento del teatro di narrazione, definizione peraltro confutata dall’interessato, per la sola parte che riguarda la narrazione (vedi più avanti). ‘Rumba’ chiude una trilogia iniziata con ‘Laika’ (2015) e proseguita con ‘Pueblo’ (2017), con gli stessi protagonisti in scena: Celestini che racconta e Gianluca Casadei che suona. I due vivono in un condominio di una imprecisata periferia e nella povera gente del loro quartiere, in questi ‘Poveri cristi’ (titolo di un libro che pubblicherà Einaudi, summa di quanto narrato nella trilogia e non solo), individuano gli stessi ultimi incontrati da San Francesco secoli fa, un popolo di invisibili che è invisibile agli altri anche oggi.
Questo ‘spettacolo nello spettacolo’ che arriva al Sociale venerdì 13 dicembre alle 20.45 è stato commissionato dal Comitato Nazionale Greccio in occasione dell’ottavo centenario del presepe di Francesco a Greccio, ed è un modo per chiedersi, o constatare, come la figura di Francesco continui ad affascinare.
Ascanio Celestini: perché San Francesco?
Perché quando Francesco sceglie il suo gruppo di persone, quei ‘frati minori’ – frati nel senso di fratelli e minori nel senso di ultimi – lo fa perché pensa davvero agli ultimi, pensa che se davvero si tratta di aiutare le persone, allora bisogna cominciare dagli ultimi e non dai penultimi o dai terzultimi. Ciò che spesso noi facciamo oggi è invece lo sceglierci gli ultimi che ci piacciono, e se non sono abbastanza fotogenici ricorriamo finanche ai quartultimi. Francesco, prima ancora di pensare alla sua fraternità, così ci dicono i testi del XIII secolo, scende da cavallo e abbraccia e bacia il lebbroso, e non c’è più ultimo di un lebbroso.
Nel titolo dello spettacolo spicca il parcheggio del supermercato, luogo simbolo del nostro presente...
Al parcheggio del supermercato si arriva partendo dal fatto che nel 1219 Francesco riesce ad arrivare in Africa e lì si accorge che le crociate sono una carneficina inutile. Quando torna nella sua Umbria, la prima cosa che fa è cercare di redarre la sua Regola, che nel 1223 viene accettata dalla Chiesa. Proprio in quell’anno, a Natale, fa un presepe a Greccio, in provincia di Rieti, tra Umbria e Lazio, e in quel presepe ci mette un asino, un bue, una mangiatoia e niente di più, perché non vuole una fiction televisiva o il presepe barocco napoletano: vuole dire che non serve fare la guerra per conquistare il luogo nel quale è nato Gesù Cristo, perché Gesù Cristo è nato lì dove vive la povera gente. Betlemme sta a Betlemme, ma può stare pure a Greccio. L’idea di portare la storia in un supermercato, in una periferia qualunque, nasce dal fatto che una periferia qualunque è già Betlemme.
Il suo essere ateo e affrontare una figura che, come lei dice, non può prescindere dall’ambito religioso, è una narrazione senza coinvolgimento, un punto di vista privilegiato?
Sono cresciuto in un ambiente cristiano. Cristo è entrato nella storia e io è della storia che parlo, non della sua resurrezione. Parlo del tempo nel quale è stato un personaggio storico, cosa che vale per lui e per tutti i santi, tanto più per uno così importante come Francesco. Che poi Francesco sia anche santo, meglio per chi ha una prospettiva ultraterrena.
Veniamo a cosa ci affascina di Francesco ancora dopo otto secoli. Intanto: perché affascina lei? Qual è stato il suo incontro con il santo, o meglio, con il personaggio storico?
Francesco vive all’inizio di un tempo che è anche il nostro. È un giovane e ricco borghese e noi viviamo in un tempo nel quale la borghesia ha trionfato, viviamo nel pieno del capitalismo e lui rifiuta tutto questo. C’è un racconto nel quale ci dicono che qualcuno aveva lasciato delle monete ai frati e Francesco aveva detto a uno di essi di prendere quelle monete, di metterle in bocca e di sputarle solamente quando avrebbe trovato un escremento di vacca o di somaro, ora non ricordo. Quei frati rifiutavano anche solo di toccarlo il denaro, rifiutavano il capitalismo alle origini del capitalismo stesso, una scelta che mi pare moderna come nessun’altra.
Esiste un Francesco odierno, inteso come figura, categoria, modello?
Come persona no, come modello certamente. Quando Francesco scrive la sua Regola, vuole che sia seguita sine glossa, vuole che sia presa alla lettera, ed è piuttosto difficile vivere come viveva lui, scalzo, sempre a piedi, senza nemmeno un bastone, in case che non erano case fatte di mattoni. Però ci si può mettere in marcia verso quel modello di vita.
Lei è definito uno dei maestri del teatro di narrazione, ma ha specificato che in fondo ‘tutto il teatro è narrazione’. Come possiamo definire il suo teatro quindi? Civile?
Non saprei dire. Io credo che soprattutto negli anni Novanta abbiamo cercato di alleggerire la catena di montaggio del teatro, di togliere un po’ di pezzi, lo scenografo, il coreografo, il regista, l’attore. Abbiamo cercato di andare in scena provando a mettere tutto insieme. Io cerco di non distribuire le professionalità, penso che fare teatro sia un mestiere solo, se poi questo vuole dire ‘teatro di narrazione’ va bene, è una definizione, ma credo sia semplicemente teatro.
Pier Paolo Pasolini ricorre spesso nella sua drammaturgia. Com’è cambiato il teatro da ‘Cicoria’, il suo primo spettacolo, a oggi?
Non molto. Ho cominciato a fare teatro perché volevo fare l’antropologo, ma mi sembrava che la bellezza delle storie che raccoglievo sul campo stessero lì dove le trovavo, e che fosse più interessante ascoltare le storie che non portarmele a casa. Ho trovato nel teatro la possibilità di ri-raccontare quelle storie. Mio padre restaurava mobili e quando andavamo nelle case dei nostri clienti prendevamo questi mobili rotti e glieli riportavamo restaurati. È un po’ quello che faccio col teatro, prendo storie a volte un po’ rotte e semplicemente le restauro. Quanto a Pasolini, e il libro ‘Poveri cristi’ me lo dimostra, mi sono reso conto di essermi spesso riferito a lui in questi racconti. Già alla fine degli anni Quaranta, Pasolini aveva scelto di dire che l’intellettuale è borghese e non ha bisogno di fare la rivoluzione, perché l’ha già fatta in Francia nel 1789, ma può comunque tradire la sua appartenenza alla borghesia e sposare la causa delle classi subalterne. È per questo che io racconto le storie dei poveri cristi, perché sono le storie di chi nella storia non ci entra mai, se non quando si parla di cronaca nera.
Lei sostiene che nel suo percorso terreno Pasolini abbia raccontato la storia di un Paese intero, l’Italia, limitatamente al periodo che va dal fascismo a quando egli morì. Guardando ai temi da lei trattati, non è quel che sta facendo lei?
Faccio quello che faccio perché penso che siano cose interessanti da dire, perché penso che la ‘mission’, come si dice oggi nelle aziende, la mission dello scrittore, sia raccontare la vita delle persone, dunque si tratta di andare a cercare le persone là dove stanno.