La regista Cristiana Minasi racconta lo spettacolo ‘Umanità nuova’ sui Moti di Reggio Calabria del 1970, ‘una microstoria per mostrare la macrostoria’
«Non so cosa discrimini un evento dall’essere storico o l’essere oblio», ma ci sono storie «che in un modo o nell’altro senti di dover conoscere», e quella alla quale si assiste in ‘Umanità nuova. Cronaca di una mancata rivoluzione’ pare una di queste, per molti motivi. Uno tra tutti, non dimenticare per non ripetere. La citazione è rubata dal prologo di questo spettacolo che Giuseppe Carullo (della compagnia siciliana Carullo-Minasi, una delle più interessanti nella scena meridionale contemporanea) porta in scena, e che sarà ad Arzo questa sera alle 22 al Giardino Castello, all’interno del Festival di narrazione in corso fino a domenica.
Teatro civile, teatro con una definita visione politica e storica, teatro di denuncia ma anche di rivelazione collettiva. Quello che si vede in scena non è solo la Storia – nella fattispecie i Moti di Reggio Calabria del 1970 e la morte dei cinque giovani anarchici, una storia ricostruita, dimenticata, modificata a posteriori – ma anche i molti temi a essa intrecciati: l’adolescenza, le rivolte dei giovani del ’68, l’abuso di potere e di terminologia.
Diretto dalla compagna Cristiana Minasi e su un testo del giovane e talentuoso drammaturgo Fabio Pisano, Carullo porta in scena anche la sua necessità di conoscenza, di approfondire un fatto che lo ha colpito ragazzo, a cui non ha assistito ma che sente l’urgenza di dire. Da qui nasce ‘Umanità nuova. Cronaca di una mancata rivoluzione’ che abbraccia il senso di ingiustizia verso la spirale di violenza inaudita che in quel periodo si viveva, il fallimento del ’68, la necessità di un revisionismo storico (che è quello che, per l’appunto, la rivista anarchica ‘Umanità nuova’ da cui prende nome il titolo dello spettacolo continua a fare). Uno spettacolo che indaga il rapporto con il potere, la libertà, lo scontro tra generazioni, il rifiuto del nuovo, la sordità. E lo fa partendo appunto dalla storia di cinque ragazzi, gli Anarchici della Baracca. Vittime di questo scontro, fermati bruscamente mentre erano in corsa verso la denuncia di una verità scomoda.
Domani, sempre ad Arzo, una tavola rotonda alla Corte dei Miracoli alle 18.30 dal titolo Teatro e anarchia con Giuseppe Carullo, Cristiana Minasi, la professoressa in discipline dello spettacolo a Bologna Cristina Valenti, Massimo Ortalli, responsabile dell’archivio storico della federazione anarchica italiana, ed Edy Zarro, ricercatore anarchico.
Ne abbiamo parlato con la regista, Cristiana Minasi che ci racconta la genesi dello spettacolo. «In Giuseppe(Carullo) c’è sempre stato questo fortissimo desiderio di frequentare gli anarchici di Reggio perché al suo ultimo anno di liceo un giovane professore aveva trasmesso lui la passione di questa storia. Una spinta molto forte, una necessità. A vent’anni di distanza, durante la pandemia, mentre io scrivevo il mio dottorato lui decide di fare questo spettacolo e di trovare qualcuno che con lui volesse affrontare un ragionamento intorno alle giovani generazioni che non sono state ascoltate, anche se avevano ragione. Ha iniziato a studiare testi sull’anarchia, si è appassionato molto». Al progetto subentra presto anche Fabio Pisano «che già ci aveva contattato in precedenza per un nostro spettacolo sulla dialettica servo padrone, affascinato dal tema. Si scoprì essere conoscitore avvezzo del tema, conosceva la storia dei cinque anarchici, ci ha consentito di crescere insieme».
Come è stato lavorare con un drammaturgo affermato per voi, che già siete una coppia creativa molto solida e con un proprio linguaggio?
Benissimo, contro ogni aspettativa. Pisano si è subito messo all’opera, ed è stato molto disponibile, capace di elaborare i propri desideri e quelli di Giuseppe, che voleva parlare del confronto tra generazioni, dei padri con una visione che hanno capito troppo tardi essere in torto, rispetto a quella dei giovani rivoluzionari. Oggi questo sembra ritornare con prepotenza. Una microstoria quindi per mostrare la macrostoria, che diventa, come spesso accade per i nostri lavori, metateatrale.
Come?
Con i gessetti! (ride). Il palco viene utilizzato come un quadrato, disegnato appunto, e rimanda immediatamente al settimanale Umanità nuova. I personaggi escono attraverso il giornale, con i cartelli. Ci sono sagome, tralicci, è uno spettacolo fondato su pochissimo materiale, Giuseppe mette in scena tutti i personaggi.
Sedotta da questa brechtiana ricostruzione, voglio saperne di più. Da regista come mettere in scena la Storia? Con realismo, metafora o poesia?
Il fatto storico diventa inevitabilmente poetico. Molte vicende vengono narrate attraverso lo slittamento continuo sull’attore. Anche se non li abbiamo vissuti sento che ci sono degli episodi che segnano la vita di un Paese, che finge di non vedere qualcosa di minuscolo che in realtà si fa carico della storia italiana. È un’idea poetica, una presa di posizione, un atto d’azione. Ma attenzione, non è un’apologia dell’anarchismo, è la storia di un ragazzo, Angelo Casile, e delle visioni mancate. Non è metaforico è vita vissuta e negata nella sua realizzazione ulteriore. Ma devo dirti che in generale la metafora nel nostro teatro non esiste, si va oltre, la poesia si imprime nei fatti che accadono lì, dal vivo.
Parliamo di Anarchia.
C’è tanta ignoranza, si ha ancora paura dell’anarchia. Ma c’è una filosofia profonda, un pensiero di estremo livello che sta dietro questa parola. Anarchia non è la mancanza di regole, ma il non essere vittima delle regole, autoregolarsi. Crearsi delle regole per essere liberi. Questo è importante, e quello che mi affascina, anche nel tema dell’improvvisazione teatrale. Si dice sempre che l’improvvisazione prescinde da ogni regola. E invece ci vuole la capacità di stare dentro un meccanismo di regole atte a giustificare un’apertura, che giustifichi anche un modo personale di esistere. Un canovaccio, struttura. Insomma, tutto rientra in una visione che poi si fa metateatrale. Le caratteristiche proprie della struttura teatrale vengono riproposte come paradigma che forma la società.