L’opera di Mozart/Da Ponte intrecciata alla commedia di Molière, martedì 10 dicembre al Cinema Teatro Chiasso. ‘Io mattatore? Preferisco capocomico’
Gli chiediamo di salutarci Napoli, ma nella sua città natale non tornerà che a Natale. «Faccio prima a passare per Chiasso, ma senz’altro le manderò i suoi saluti». Arturo Cirillo è a Rimini, dove il suo Don Giovanni è approdato per poi muoversi verso altri lidi. A Chiasso, come anticipa lui, è atteso martedì 10 dicembre nel locale Cinema Teatro, per l’originale fusione tra il Mozart ascoltato sin dalla tenera età, elevato dal libretto di Lorenzo Da Ponte, e il Molière che già si era impossessato dell’attore e regista italiano in occasione de ‘Le intellettuali’, ‘L’Avaro’ e ‘La scuola delle mogli’. Il Molière di ‘Don Giovanni o Il convitato di pietra’ (‘Dom Juan ou le Festin de pierre’).
Oltre vent’anni di recitazione e regie teatrali intervallate da regie liriche, letture sceniche, saggi e televisione selezionatissima (Raidue Palcoscenico), Cirillo arriva al teatro attraverso la danza; il diploma all’Accademia nazionale d’arte drammatica di Roma nel 1992 e, dal 1996, premi Ubu, Hystrio e un paio di certificazioni dell’Associazione nazionale Critici di Teatro.
Arturo Cirillo, la ‘nuvola di parole’ del suo Don Giovanni contiene Napoli, suo padre, la musica, il San Carlo: che ricordi ha di quei giorni?
Parliamo di un’epoca abbastanza lontana, però io tendo spesso ad andare nel passato, sono preda di una sindrome proustiana. Quel che ricordo è che sin da piccolissimo mio padre mi portava al San Carlo, o alla meravigliosa stagione dell’Orchestra Scarlatti che si teneva nella Villa Pignatelli. In quel contesto di frequentazioni liriche, il Don Giovanni di Mozart era un’opera che risuonava spesso, anche nelle grandi stanze della nostra casa di Viale Calascione. Ho ricordi molto nitidi di quando nel 1979, all’età di unici anni, vidi il film di Joseph Losey che tanto contribuì alla Mozart-reinaissance e di conseguenza a un nuovo approccio verso Mozart, autore non soltanto di un teatro buffo, ma anche di uno più complesso, ricco di tanti temi e sentimenti.
In che modo Mozart convive con Molière nel suo spettacolo?
Premetto che nei confronti del Don Giovanni di Molière ho avuto sempre sentimenti contrastanti. Fu scritto molto rapidamente, dopo il frettoloso ritiro del ‘Tartufo’, che aveva creato grande scandalo. All’epoca, tra l’altro, il mito del Don Giovanni era già assai frequentato nei teatri parigini, portato in scena dagli attori italiani della Commedia dell’arte, canovaccio per il teatro di burattini o declinato in altri modi, come tutti i miti. Il testo ha una certa discontinuità, rapportata alla perfezione di altri da lui scritti: la trama non trama, alcuni momenti noiosi, come i due fratelli di Donna Elvira, il finale abbastanza barocco ed eccessivamente farsesco, la donna velata, la morte con la falce in mano.
Rispetto a tutto questo, mi sono detto: voglio fare il Don Giovanni, ma prendendo le parti dell’opera alle quali sono particolarmente legato, e del testo di Molière preferisco di gran lunga la parte finale, escludendo il finalissimo, per il quale si torna all’opera. Tengo a puntualizzare: nessuno di noi si mette a fare del canto lirico, lavoriamo invece sul libretto di Lorenzo Da Ponte, che io considero il più grande librettista italiano. Benché del Settecento, il suo è un meraviglioso italiano comprensibile ancora oggi, dalla grande invenzione lessicale e con un bellissimo senso del ritmo anche senza la musica.
Così come nessun attore canta il Don Giovanni, allo stesso modo la musica non è quella del Don Giovanni…
Lavorando su un libretto legato a un’opera così famosa, sono inevitabilmente nati in me richiami musicali. Mi sono affidato a Mario Autore per riarrangiare Mozart staccandoci dall’originale, ‘scollando’ a volte il testo di Da Ponte dalla musica o liberando quest’ultima da un momento specifico; a volte c’è il testo soltanto. Citare quest’opera è per me anche l’andare con la memoria alla mia infanzia, è sempre un rievocare, mai strettamente un eseguire. D’altra parte, non avremmo avuto né tecnica né mezzi per cantare e suonare il Don Giovanni.
Questo fondere autori diversi ha riguardato anche il Cyrano, da lei portato in scena tempo fa con riferimenti al Pinocchio di Collodi, al Cyrano di Modugno, a Fellini…
Ci sono alcune similitudini, anche se le opere di partenza sono molto diverse: la mia considerazione di Molière è altissima, su Edmond Rostand ho un giudizio molto più limitato. Fiorenzo Carpi, per quanto grandissimo musicista e per quanto belle siano le sue musiche per la versione televisiva di Pinocchio, non posso metterlo a livello di Mozart. In questo Don Giovanni in realtà ci confrontiamo con opere più sostanziose, portatrici di molteplici significati. Il mito stesso di Don Giovanni si è costruito anche attraverso dei caratteri a volte molto contraddittori, tra il farsesco e il drammatico. Lo spettacolo tende a muoversi su questi fragili equilibri, tra momenti divertenti, soprattutto sul finale, e scene chiaramente drammatiche.
La definizione di ‘mattatore’ che danno di lei è la spiegazione del fatto che il Don Giovanni sia una fusione? L’originale tout court le stava stretto?
Sono rimasto fedele al testo molte volte. La mia prima trasposizione risale a qualche anno fa, quando presi un romanzo breve di Giuseppe Patroni Griffi intitolato ‘Scende giù per Toledo’ e lo trasformai in un monologo, portato in scena personalmente. In seguito presi ‘Orgoglio e pregiudizio’ di Jane Austen e con l’aiuto di un giovane e bravo drammaturgo napoletano, Antonio Piccolo, lo trasportai per il teatro di prosa. Del Cyrano abbiamo detto, e la contaminazione riguarda il Pinocchio figura letteraria, con citazioni da un libriccino che Gianni Rodari scrisse sulle sue Avvenure. Tra qualche anno mi piacerebbe fare ‘Il berretto a sonagli’ di Pirandello, e lì non penso proprio di contaminare alcunché.
Quanto al termine mattatore, credo che si debba al fatto che in questi ultimi due anni, con la figura di Cyrano e Don Giovanni, sono andato a scegliermi un repertorio frequentato spesso da attori mattatoriali, gente come Vittorio Gassman. Io non mi considero tale, mi sento piuttosto un attore emotivo, sensibile, nostalgico, a volte crepuscolare. Preferisco quando mi si definisce ‘capocomico’, mi corrisponde di più: porto avanti da tanti anni una compagnia abbastanza costante per composizione. ‘Capocomico’ dà senso al fatto che i miei spettacoli girano sempre con me dentro, e in qualche modo io me li vivo in tutte quante le loro forme e trasformazioni.
Per finire, tornando alle origini: quanto la danza fa ancora parte di lei?
La danza è parte della mia educazione sentimental-artistica, che ho ricevuto e che mi sono anche andato a cercare. Dopo avere frequentato intensamente il mondo della musica classica, sinfonica e operistica, stufo di fare piscina ortopedica perché ho sempre sofferto di scoliosi, frequentai per cinque anni una scuola di danza classica a Napoli. Ho fatto anche danza contemporanea, qualche spettacolo tra Svezia, Francia e Italia. La danza continua ad affascinarmi molto e in me resta sempre, d’altra parte i primi passi fisici sopra un palcoscenico li ho fatti con i saggi di danza classica del percorso scolastico annuale.