laR+ Fuoriserie

Sette ore per un ‘Disclaimer’

Cinque minuti di applausi a Venezia, tante recensioni negative una volta in streaming. È il Cuarón dopo ‘Roma’: davvero vuole portarlo agli Oscar?

Cate Blanchett è Catherine Ravenscroft (su Apple TV+)
(Keystone)
26 novembre 2024
|

Il significato legale di disclaimer è “una dichiarazione di limitazione delle proprie responsabilità”. Più in generale il disclaimer è un avvertimento da mettere all’inizio di qualcosa, una premura per evitare brutte sorprese, dopo. In un certo senso si può considerare un disclaimer persino quello che Dante ha messo all’entrata dell’Inferno: lasciate ogni speranza, voi che entrate. Nei libri e nei film, il disclaimer serve a prendere una distanza da fatti realmente accaduti, per tutelarsi da eventuali denunce di chi ci si possa riconoscere dentro. Questo è il senso in cui viene usata la parola Disclaimer nella serie tv di Apple realizzata da Alfonso Cuarón. Presentata in anteprima come un’opera in due parti (i primi quattro episodi insieme, e poi gli ultimi tre) allo scorso festival di Venezia, ‘Disclaimer’ ruota attorno al terribile segreto di una documentarista inglese di successo di nome Catherine (Cate Blanchett), esposto in un libro autoprodotto da un anziano ex professore. Il simbolismo è sfacciato: il documentario è il genere della realtà, Catherine lavora con la verità ma lei stessa rappresenta una bugia. Il libro non è esplicitamente ispirato a lei ma il disclaimer, stavolta, avverte che ogni somiglianza con persone realmente esistenti NON è una coincidenza. I fatti che racconta sono quelli che, venti anni prima, l’hanno coinvolta nell’incidente che ha portato alla morte per affogamento, nel mare di Forte dei Marmi, di un ragazzo con cui stava avendo un’avventura extraconiugale appassionata. Chiunque legga il libro trova che il personaggio femminile – quindi lei – sia orribile. In qualche modo, anche se non sappiamo subito come, lei è responsabile per la morte del ragazzo.

‘The Perfect Stranger’

La serie si svolge su due linee temporali: quella presente, a Londra, dove la vita di Catherine va in pezzi rapidamente; e quella passata, in Italia, in cui la versione trentenne di Catherine (Leila George) vive quella breve storia d’amore che porta alla morte del ragazzo, più giovane di una decina d’anni. È la storia che racconta il libro, in realtà, non un ricordo vero e proprio. Il libro in questione, ‘The Perfect Stranger’, lo ha pubblicato il padre del ragazzo (Kevin Kline) risvegliatosi dal torpore della depressione dopo aver trovato quel manoscritto tra le cose della moglie (morta molti anni prima, senza essersi mai ripresa dalla tristezza di aver perso il figlio), insieme ad alcune foto che ritraevano Cate in pose sensuali, foto scattate dal figlio. Il libro è un modo per vendicare la morte del figlio e la disperazione della moglie, rovinando la vita a Catherine, senza sputtanarla in modo diretto, quanto piuttosto spingendo lei a smascherarsi da sola, rivelando che persona orribile sia in realtà, perdendo il lavoro, il marito e magari anche il giovane figlio, in modo da pareggiare i conti.

‘È un tentativo fallito di thriller femminista’ (Variety)

‘Disclaimer’ era una delle serie più attese dell’anno. Il tentativo, la pretesa anzi, di resuscitare il vecchio splendore delle serie tv, per contrastare con la qualità un altro modo di fare tv in streaming, quello basato sulla profilazione del pubblico e le scelte del famoso algoritmo. Qualità prima di tutto, forse persino prima degli abbonamenti al servizio Apple TV. ‘Disclaimer’ (tratta dall’omonimo racconto di Renée Knight) è il primo progetto di Alfonso Cuarón dopo ‘Roma’, il film realizzato per la rivale Netflix nel 2018, che sempre a Venezia vinse il Leone d’Oro, e che gli valse anche l’Oscar per la regia, il suo secondo consecutivo dopo quello del 2014 vinto per ‘Gravity’. In quel periodo si parlò molto del conflitto tra vecchie produzioni e nuovi servizi di streaming, oggi ci facciamo meno problemi e nessuno storce il naso nel vedere in un festival cinematografico una serie tv accorpata per sembrare un film lungo. Nessuno corregge Cuarón quando dice che ‘Disclaimer’ in realtà “è un film di sette ore” (e secondo la stampa americana potrebbe addirittura pensare a un modo per distribuirlo nelle sale e concorrere ai prossimi Oscar).

A Venezia, ‘Disclaimer’ ha ricevuto, a seconda delle fonti, cinque o sei minuti di applausi. Ma quando i primi episodi sono diventati disponibili nel catalogo digitale di Apple, poche settimane fa, sono uscite delle recensioni negative. “È più facile da ammirare che da godere”, ha scritto il New York Times. “È un tentativo fallito di thriller femminista”, secondo, invece, Variety. “È una sconcertante cilecca di un grande autore”, il Newyorker. E così via, fino a quella che forse fin dal titolo è la recensione più dura, del Guardian: “Solo Cate Blanchett poteva cavarsela con una sceneggiatura così abominevole”. Certo, la qualità non manca. Solo la fotografia di Emmanuel Lubezki e Bruno Delbonnel meriterebbe, a pensarci bene, lo schermo di una sala cinematografica. Tutto è reso con una vividezza “non da serie tv”: la luce dell’estate che dall’oro bruciante delle prime ore in spiaggia scivola nel livido grigio di una tempesta improvvisa; la pioggia di Londra, i suoi marciapiedi duri, scivolosi; la morbidezza dei vestiti di Cate Blanchett, il lusso con cui la borghesia occidentale ricopre i propri vuoti affettivi a contrasto con il polveroso squallore in cui vivono i suoi figli reietti. Delle case e degli uffici creati da Neil Lamont e decorati da Pancho Chamorro sembra quasi di sentire i diversi odori, la diversa aria che si respira, per quanto sono “fatti bene”.

Le facce

La faccia di Cate Blanchett, in un ruolo non troppo diverso da quello che le è valso l’Oscar in Tar, e i primi piani che le dedica Cuarón, anche, meriterebbero lo schermo grande (Marcello Mastroianni nel documentario ‘Mi ricordo, sì, io mi ricordo’ identificava proprio nel modo in cui vediamo le facce la differenza tra cinema e tv, ricordando quando Fellini gli diceva: “Vedi, Marilyn Monroe prima la guardavamo così, gigantesca. Ora la guardiamo lì, per terra, piccola. Fa differenza”). Kevin Kline non è da meno, in un’interpretazione mefistofelica che, per quanto Cuarón voglia farci tifare per lui e per la sua vendetta per almeno cinque episodi su sette, puzza lontano un miglio di misoginia. Ma tutta questa qualità, da sola, non basta. E neanche le buone intenzioni con cui Cuarón ha voluto metterci in guardia sull’ambiguità del reale.

Una cosa è creare personaggi ambivalenti o complessi, usare stratagemmi narrativi come colpi di scena o cambi di punti di vista, un’altra è fingere di raccontare una storia salvo poi, alla fine, dirci che la storia era tutt’altra. Dov’è il confine tra tenere sulle spine lo spettatore, chiedergli attenzione, spirito critico persino nei confronti del narratore, e semplicemente barare, nascondere le carte con cui lo spettatore stesso potrebbe capirci qualcosa di più? Come in quei film gialli in cui l’assassino si rivela essere, solo nell’ultima scena, un personaggio di nessuna importanza, una comparsa che passava di lì in quel momento su cui lo spettatore non aveva nessun motivo di sospettare. Perché, ad esempio, usare una voce fuori campo – vagamente straniante, come se stessimo guardando un documentario naturalistico – senza mai mettere in dubbio la versione dei fatti di primo livello? Cuarón non ci dà nessun indizio per immaginare altre versioni che non siano quella che ci sta raccontando.

Andrebbe anche bene così, se tutto il film non si reggesse su questo meccanismo apparentemente sorprendente. Anche la versione dei fatti a cui siamo obbligati a credere non è convincente. Non è abbastanza per mettere in moto quel cataclisma che si abbatte su Catherine. Ad esempio, senza spoiler maggiori: Catherine ha un marito (Sacha Baron Cohen) che la ama follemente e persino quando lei perde la testa dopo aver letto il libro, dicendogli che parla di lei, della sua storia, il marito la rassicura. “Sto per morire”, dice lei mentre prova a bruciare il libro nel lavandino della loro magnifica casa da mille milioni di sterline nel cuore di Londra. Dice di essere una terribile moglie, una madre fredda e distante del figlio tossico che ha praticamente cacciato di casa per renderlo autonomo. Dice, inoltre, che quel libro parla di “qualcosa successo molti anni fa”, ma il marito non chiede niente al riguardo, non si incuriosisce, le dice che è una “brava persona”, la chiama “Santa Catherine”. Quando poi, qualche episodio dopo, scopre quel presunto tradimento vecchio di vent’anni, la mette alla porta in un nanosecondo. A posteriori, la disperazione di Catherine e tutta quella parte hanno poco senso.

Superficialità dei personaggi

‘Disclaimer’ è un giallo in cui a nessuno interessa scoprire l’assassino. Neanche il padre del ragazzo morto in mare, che tortura Catherine considerandola colpevole su una base fragile (il libro scritto dalla moglie morta), è interessato ad andare minimamente oltre quello che già sa, o pensa di sapere. Più che mettere in discussione l’idea di verità, intesa come punto di vista univoco, oggettivo, sulle cose, ‘Disclaimer’ soffre della superficialità dei propri personaggi, della loro stessa mancanza di umanità. Ok non dobbiamo confondere la realtà con la sua narrazione, le persone con i personaggi, e non dobbiamo cadere nei pregiudizi della nostra cultura patriarcale: pensavate che la cattiva fosse la donna di potere che aveva tradito il marito? E invece… Il problema è che questo è più o meno l’unico messaggio che Cuarón aveva da trasmetterci. Si capisce più o meno dall’inizio che le cose non possono stare esattamente come vengono raccontate, ma Disclaimer porta avanti tutta quella faccenda per sette ore. Alla fine, lo spettatore è più stanco del ragazzo che affoga nel mar Ligure per avere nuotato troppo. Una proposta: se proprio vuole portarlo agli Oscar, Cuarón non potrebbe almeno farne una versione più breve, diciamo di un’ora e mezza?


Keystone
Il regista messicano Alfonso Cuarón