laR+ La ricorrenza

Quel diario di un folle chiamato ‘Pulp Fiction’

Trent’anni dopo, il cerchio perfetto disegnato a mano libera da Quentin Tarantino continua a incantare e fare proseliti

Il signor Wolf e molti altri
(Foto Tarantino: Keystone)
2 novembre 2024
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Nella serata finale del Festival di Cannes il Grand Théâtre Lumière è sempre pieno di stelle, ma vi sono edizioni in cui l’allineamento è abbagliante, come se i protagonisti sapessero già di dover posare per una foto di gruppo che finirà nei libri di storia. La sera del 23 maggio 1994 il palcoscenico è allestito in modo severo e opulento insieme, con drappeggi e colonne color madreperla e luci violente che fanno luccicare di sudore le prestigiose fronti. La premiazione, bilingue, è condotta dalla grande Jeanne Moreau, fasciata d’oro, e da una Kathleen Turner bella e tesissima. Insieme danno la parola al presidente di giuria Clint Eastwood che deve annunciare l’ultimo premio della serata, il più importante. Eastwood è forse l’unico in tutta la sala che non sembra soffrire né il caldo né la tensione. Si alza sardonico ed elegante, il microfono sulla punta delle dita affusolate. Finge che i fogli con il nome del film vincitore della Palma d’Oro continuino a sfuggirgli di mano, suscitando le risate sommesse della sala. Alle sue spalle il profilo imbronciato di un giovane Nanni Moretti, che pochi minuti prima ha vinto il premio alla Migliore Regia per ‘Caro Diario’. Quasi tutti si aspettano che il massimo riconoscimento del festival vada a ‘Tre colori: Film Rosso’, capitolo finale della trilogia di Krzysztof Kieślowski che ha dominato la scena dei festival europei nell’ultimo anno e mezzo. Eastwood sorride. “La Palma d’Oro”. Prima pausa, e aggiustatina ai fogli. “Va a”. Seconda paura, e seconda leggera sventagliata. “Pulp Fiction!”.

L’inquadratura si sposta immediatamente sulla delegazione del film. Tarantino esulta come dopo uno strike al bowling, distribuisce gran pacche sulle spalle a destra e a manca, poi abbraccia Harvey Weinstein. Un abbraccio che equivale a un’investitura medievale. Da stasera Weinstein e Tarantino si divideranno il potere materiale e quello spirituale su Hollywood per almeno un ventennio, e probabilmente lo sanno già entrambi. La delegazione raggiunge il palco, Tarantino abbraccia Kathleen Turner in quel modo pieno di affetto e sollievo che tant’è, indipendentemente dalle circostanze, hanno sempre due americani che si riconoscono all’estero. C’è Bruce Willis virile e radioso, John Travolta con i capelli ancora lunghi da Vincent Vega, Samuel L. Jackson ben rasato e sorridente, come se mettesse in scena la redenzione del suo personaggio che si intuisce dall’ultima scena del film. L’applauso è intenso, festoso, ma dal pubblico si alza la voce di una donna, in francese. Tarantino non sembra capire subito cosa dice, ma alla terza volta che la donna ripete “merde!” un’idea se la fa. Senza smettere di sorridere alza il dito medio in direzione della spettatrice, in quella che resterà una delle immagini più famose della storia del Festival. Poi però prende il microfono e, come a riconoscere la legittimità di quella protesta, dice: “Non mi aspettavo di essere premiato. Non mi aspetto mai di essere premiato quando vado ai Festival, perché io non faccio il tipo di film che unisce le persone, faccio film che dividono”. Nemmeno lui ha capito che quella contestatrice è ancora più sola di quanto non sembri, che entro qualche anno le sue urla da snob sono destinate a suscitare la stessa tenerezza delle immagini dei primi spettatori che fuggono dalla sala davanti alla locomotiva dei Lumière, che quella sera comincia una nuova epoca del cinema e del gusto, l’epoca in cui “tarantiniano” diventerà un aggettivo lusinghiero o aspirazionale, il metro di valutazione per almeno due generazioni di cineasti. Che quella sera inizia l’epoca in cui un film come ‘Pulp Fiction’, con la sua violenza, le sue ossessioni feticiste e la sua struttura temporale frammentata, mette d’accordo proprio tutti.

Le faremo sapere

L’idea di “Pulp Fiction” era venuta a Tarantino negli anni Ottanta, quando lavorava in un video noleggio a Los Angeles e scriveva una dopo l’altra sceneggiature che venivano rifiutate sempre con la stessa motivazione: troppo violente e sboccate. Dietro il bancone Tarantino e il collega Roger Avary passavano le giornate tra fumetti e vecchi film, ai quali si ispiravano per la loro idea comune. Pulp Fiction nacque quasi come un esercizio di stile – come disegnare un cerchio perfetto a mano libera – quello di dare una propria interpretazione delle tre storie più consuete e già sfruttate nei fumetti di serie B: il sicario costretto a uscire con la pupa del boss, l’incontro di boxe combinato che non va come avrebbe dovuto, la coppia di killer con l’incarico che sembra banale, ma non lo è. Inizialmente Tarantino avrebbe dovuto scrivere l’episodio dell’appuntamento tra Vincent Vega e Mia Wallace, Avary quello del pugile che sarà poi interpretato da Bruce Willis, un terzo sceneggiatore che mai si materializzò l’ultima parte.

Tuttavia prima che il progetto potesse prendere veramente forma Tarantino ebbe l’incontro che gli avrebbe cambiato la vita e la carriera, quello con Harvey Keitel, che si innamorò della sceneggiatura de ‘Le Iene’. L’interesse di Keitel consentì di raccogliere un milione e mezzo, e soprattutto a Tarantino, esordiente e nemmeno trentenne, di imporsi per il ruolo di regista. ‘Pulp Fiction’ venne momentaneamente accantonato mentre Tarantino dirigeva il suo esordio, lo presentava fuori concorso a Cannes, otteneva incassi modesti in patria ma una insperata consacrazione oltreoceano, nel Regno Unito in particolare, dove ‘Le Iene’ diventata un cult indie e Tarantino uno dei giovani registi più chiacchierati. Fu grazie al denaro (circa 50mila dollari) e all’anticipo di fama così ottenuti che Tarantino poté realizzare una fantasia che lui e Avary avevano spesso accarezzato nelle lunghe giornate al videonoleggio, quella di affittare un appartamento ad Amsterdam dove dedicarsi a tempo pieno alla scrittura. Leggenda vuole che appena giunto nella capitale olandese Tarantino acquistò un blocco note e dichiarò: “Su questo scriverò ‘Pulp Fiction’”.

I mesi a seguire furono fruttuosi ma difficili da ricostruire nel dettaglio, come spesso lo sono i periodi di più furiosa vitalità creativa dei grandi artisti. Quel che è certo è che Tarantino maturò l’idea di intrecciare i tre episodi, che inizialmente dovevano essere del tutto separati. Lavorando alla sceneggiatura tra Amsterdam e Los Angeles, Tarantino si lasciò alle spalle centinaia di pagine dense di appunti disordinati, quaderni riempiti con grafie indecifrabili. Linda Chen, amica e dattilografa, fu incaricata di trasformare quel “diario di un folle” in una bozza leggibile. Vi fu qualche tensione con Roger Avary, che si offese parecchio quando Tarantino gli fece sapere che non intendeva riconoscergli la co-paternità della sceneggiatura, ma solo del soggetto. Alla lunga comunque fu l’antica amicizia tra i due ex commessi divenuti artisti (anche Avary nel frattempo era riuscito a diventare regista e sceneggiatore professionista con ‘Killing Zoe’) a prevalere, e continua ancora oggi.

O Travolta o niente

Il primo a intuire le potenzialità di ‘Pulp Fiction’ fu Danny DeVito, che ricevette la sceneggiatura dal produttore Lawrence Bender e offrì al progetto un primo appoggio attraverso la sua società di produzione, Jersey Films, portandolo all’attenzione dei pesci grossi di Hollywood. Harvey Weinstein ricevette le 159 pagine della sceneggiatura di ‘Pulp Fiction’ mentre stava salendo sul suo jet privato e commentò sprezzantemente: “Cos’è questo? L’elenco del telefono?”. Poco dopo telefonò al suo collaboratore Richard Gladstein, esclamando altrettanto memorabilmente: “La prima scena è fottutamente geniale. Resta così buono per tutto il resto?”. Weinstein per Hollywood non era ancora l’orco, restando agli archetipi da fiaba era un geniale stregone del cinema indipendente, ma pochi mesi prima aveva accettato di parcheggiare la propria scintillante creatura, la Miramax, nel ventre del colosso Disney. La sceneggiatura che adesso si ritrovava tra le mani sembrava un dono del destino, non soltanto perché era una delle migliori che avesse mai letto, ma perché era il banco di prova perfetto per i suoi nuovi datori di lavoro. Disney lo aveva reso oscenamente ricco, ma gli aveva anche promesso piena autonomia e indipendenza nella gestione e nelle scelte di Miramax. Come avrebbe reagito di fronte a questa storia di cervelli spappolati sui parabrezza e stupri anali? “Voglio essere chiaro con te” lo sorprese in positivo il presidente Disney Jeffrey Katzenberg “vacci piano con la scena dell’overdose, se puoi. Ma è una delle sceneggiature migliori che io abbia mai letto. Anche se non ne hai bisogno, ti do la mia benedizione”.

Weinstein è pronto a lasciare a Tarantino mano libera su tutto, tranne che nella più estrema delle trovate che si è messo in testa: il casting di John Travolta, bollitissimo e inviso alla critica (che forse avrebbe anche potuto perdonargli ‘Senti chi parla’, ma non ‘Senti chi parla 2’) nei panni del killer tossicomane Vincent Vega. Tarantino si impunta, o Travolta o niente, e pare che dopo la prima proiezione test Weinstein avrebbe poi ripetuto a chiunque gli prestasse attenzione: “Meno male che ho voluto a tutti i costi Travolta!”. Entrano anche Bruce Willis, e una riluttante Uma Thurman – inizialmente poco convinta di interpretare un personaggio amorale e trasgressivo come Mia Wallace –. Gli 8 milioni di dollari di budget vengono recuperati prima ancora di aver girato un ciak, grazie alle prevendite all’estero. Il resto è storia, dalla valigetta misteriosa al signor Wolf, attraverso quei dialoghi verbosi ed eccentrici che, dopo anni di vassallaggio, riportano la grande scrittura al cuore del grande cinema. ‘Pulp Fiction’ vince solo l’Oscar alla miglior sceneggiatura, per il resto è l’anno di ‘Forrest Gump’, ma trent’anni dopo il cerchio perfetto disegnato a mano libera da Tarantino non ha ancora smesso di incantare e fare proseliti, vero e proprio sillabario della nostra immaginazione.