La stagione 2024-25 si è aperta con un progetto unico, che presenta una triplice protagonista affiancando Puccini alle opere di Aubert e Massenet
Il Teatro Regio di Torino ha iniziato la stagione operistica 2024-25 con un progetto di grande interesse, e unico in Italia: punto di partenza è la presenza di Giacomo Puccini, del quale stiamo celebrando il centenario della morte, e della sua Manon Lescaut, che vide la prima rappresentazione proprio al Regio, nel 1893. Il teatro si è spinto oltre, presentando una triplice Manon e affiancando a Puccini le opere di Daniel Auber, 1856, e di Jules Massenet, 1884, ispirate alla stessa figura femminile. Il pubblico ha potuto assistere alle tre opere, programmate per fruire ogni sera di un titolo diverso, con tre direttori, tre cast, tre messe in scena differenti: ventuno recite in un mese, accomunate dallo stesso regista, Arnaud Bernard.
L’operazione ha permesso un confronto ravvicinato: dei libretti e delle opere musicali, accomunate dalla vicenda di Manon ma diverse per scrittura ed estetica. La figura della bella e giovane Manon, inizialmente destinata al convento ma invischiata in storie di passione e ricchezza che la porteranno alla perdizione, risulta infatti diversa: il libretto di Illica, Oliva e Praga per Puccini mostra una Manon libera, ribelle; alla ricerca di sé stessa è la Manon nel testo di Meilhac e Gille per Massenet; più frivola, quasi un uccellino in trappola, è la Manon che Scribe consegna a Auber: le tre Manon si allontanano e si avvicinano al comune modello letterario: nessuna gli è fedele, e forse nessuna lo tradisce pienamente. Anche l’amante di Manon, il cavaliere Des Grieux, assume ruoli diversi, e solamente in Massenet egli diventa un personaggio di un certo interesse. In realtà, il raffronto denota due libretti drammaturgicamente non riuscitissimi, mentre quello musicato da Massenet vince nettamente la partita.
Il trittico torinese iniziava con la Manon Lescaut di Puccini, primo grande successo del compositore, scritta, tra l’altro, durante il suo soggiorno a Vacallo. Il genio musicale si rivela qui pienamente, attraverso una ‘modernità’ di soluzioni quasi inaudita. Brava l’orchestra del Regio in questa prova: peccato però che il direttore, Renato Palumbo, abbia faticato nel lavoro di equilibrio tra orchestra e cantanti, troppo spesso sovrastati, quasi soffocati dagli strumenti. Il cast era inoltre disomogeneo: la vocalità di scuola italiana talvolta non privilegia la dizione, e può compromettere la fruizione, come è stato il caso di alcuni protagonisti di questa Manon: sono emerse invece le chiare voci di Carlo Lepore (Geronte) e Giuseppe Infantino (Edmondo). L’arte compositiva di Massenet è tra le più felici della seconda parte dell’Ottocento: vero Re Mida dell’opera, Massenet trasforma in oro pressoché ogni soggetto affrontato, e la sua Manon non fa eccezione. Sottoscriviamo le lodi di Saint-Saëns, pure suo acerrimo rivale, riassunte nel lapidario, retorico interrogativo: “Come resistere ascoltando Manon ai piedi di Des Grieux nella sacrestia di Saint-Sulpice?”. Bravo il direttore Evelino Pidò, che poteva contare su un eccellente cast: su tutti brillava la voce chiara e ben definita di Björn Bürger (il sergente Lescaut). La partitura di Auber è godibilissima, ancora debitrice di Rossini, con trovate geniali e spumeggianti, e il ruolo di Manon estremamente impervio, tra vocalizzi, note sovracute ed equilibrismi: cast perfettamente indovinato, dove, oltre al direttore Guillaume Tourniaire, spiccavano i due protagonisti: Marie-Eve Munger (Manon), soprano di coloratura perfettamente a suo agio nell’impegnativa parte, e Marco Ciaponi (Des Grieux), tenore nitido, preciso, convincente.
Sommamente interessante è stato osservare alcuni momenti topici emersi nelle tre partiture, dove l’elemento musicale viene letteralmente messo in scena: succede nel secondo atto di Puccini, quando alcuni cantanti intonano un Madrigale (con materiale ripreso dalla sua Messa di gloria) e un Minuetto, che rimandano allo stile del secolo precedente. Succede nel sontuoso terzo atto di Massenet, dove ascoltiamo una serie di danze ‘antiche’, nel lussuoso appartamento di Manon. Anche Auber mette in scena la musica: nel primo atto, quando Manon canta dei deliziosi couplets accompagnandosi alla chitarra, con una ‘Bourbonnaise’. Si tratta di cortocircuiti musicali, che rappresentano omaggi al secolo precedente parodiando uno stile simil-rococò, sottolineano il disprezzo verso la categoria dei musicisti (in Puccini), oppure alludono al Ballet de cour sei-settecentesco con il divertito Massenet: purtroppo, l’impostazione registica non ha colto appieno le sfumature del pastiche, procedendo con un’interpretazione che sembrava trascurare le sottili interconnessioni dell’opera.
Se la musica ascoltata ha messo d’accordo tutti, altrettanto non si può dire dell’allestimento. Il punto di vista di Arnaud Bernard, o, meglio detto, il prisma attraverso il quale il regista ha osservato le tre Manon, è il cinema francese di tre epoche diverse: per Puccini il realismo della fine degli anni Trenta, quello di Jean Gabin; per Massenet il cinema parigino degli anni Sessanta, con Brigitte Bardot; per Auber, il cinema muto, Méliès e chi ha seguito le sue orme. Nel caso di Puccini la regia ha mostrato le sue maggiori fragilità: se la proiezione di estratti cinematografici si giustificava, durante l’ouverture e il magnifico Intermezzo sinfonico, per accompagnare visivamente quei momenti, puramente strumentali, difficilmente comprensibili erano le altre proiezioni, che, insieme a un continuo movimento della folla presente in scena, stavano a dimostrare un horror vacui registico che distraeva, senza valori aggiunti apparenti, rispetto a ciò che ci stavano raccontando testo e musica. L’intervento registico più efficace era in Massenet: La vérité il film correlato, firmato nel 1960 da Henri-Georges Cluzot, in bianco e nero, con una giovane Brigitte Bardot processata per l’omicidio del suo ex amante. Alcune scene accompagnavano l’inizio degli atti di Massenet; l’arredo del tribunale fungeva da fil rouge delle varie scene dell’opera; il movimento dei cantanti e attori sulla scena si ispirava a tecniche cinematografiche quali il fermo immagine e il ralenti. In Auber il gioco era chiaro, sulla scena si assisteva alle riprese di un film, con tanto di cineprese, regista, postazione di montaggio, comparse, sarte, assistenti: peccato interrompere il gioco nel terzo atto. Sfortunatamente, poi, l’ossessione di non lasciare spazi vuoti, già avvertita nelle due opere precedenti, raggiungeva il parossismo: difficile comprendere il significato delle reiterate gag proposte dietro le quinte, che distoglievano l’attenzione.
Per terminare, il finale che accomuna Puccini e Auber, l’errare dei due protagonisti in una landa desolata e la conseguente morte di Manon, non ha trovato soluzioni registiche convincenti. Azzeccate ed efficaci, invece, le scene curate da Alessandro Camera e le luci di Fiammetta Baldiserri, interamente basate sulle sfumature di grigi, affettuoso tributo al bianco e nero dei film che agivano come filo conduttore.