In sala l'ultimo Sorrentino, cinema metafisico e pericolosamente lezioso che tralascia l'urgenza della credibilità e della trasmissione delle emozioni
Soprattutto in epoca contemporanea, l'arte concettuale assume talvolta un'identità così evanescente da diventare solo un concetto, un'idea, abbandonando il risultato estetico ed emotivo in favore del processo psicologico o filosofico che ne deriva dall'analisi. Per questo motivo, molte opere d'arte non esistono senza la loro targhetta descrittiva, sprovviste di un barlume di sensibilità, disperatamente alla ricerca di soluzioni per ridurre la complessità delle cose. ‘Parthenope’ è il canto ammaliatore di Paolo Sorrentino, al quale si può resistere senza incatenarsi all'albero maestro e che, forse, ci si poteva anche aspettare, perché raccontare nuovamente Napoli dopo ‘È stata la mano di Dio’, sicuramente il film più intimo del regista, era un'impresa quasi troppo impegnativa alla base.
Parthenope è una ragazza nata in acqua, acclamata e chiamata con l'antico nome della città di Napoli. Ricca di famiglia, trascorre il tempo leggendo classici e studiando complessi trattati, quindi si diverte in compagnia del fratello Raimondo e dell'amico Sandro, perdutamente innamorato di lei, come tutti coloro che la incontrano. Mentre la famiglia si disintegra al suicidio di Raimondo, Parthenope persegue i suoi studi di antropologia sostenuta dal severo professor Marotta, nel frattempo esplorando la propria sessualità e gioventù che, a posteriori, avranno breve durata.
La mancanza di una vera e propria trama non è una novità nel cinema di Paolo Sorrentino, in passato riuscito a sopperire a questa difficoltà strutturale grazie a un senso generale aperto e delle situazioni emotive forti, ancorate a realtà più tangibili e credibili, anche magnifiche, pensando a ‘Il Divo’ e soprattutto ‘Le conseguenze dell'amore’. L'idea alla base del film sarebbe buona ma la centralità, ovvero l'osservazione della bellezza di Parthenope, è messa in scena ossessivamente, talvolta scadendo in manierismi quasi pubblicitari e indugiando tediosamente in quella consapevolezza dei “belli che sanno di esserlo”. Una fusione di idee del regista, purtroppo già viste e approfondite, infine offuscate dietro a un'estetica che diventa fine a sé stessa, al servizio di una ambientazione immateriale. ‘La grande bellezza’ cerca di incontrare ‘Lolita’ in Campania: Napoli è dichiarata ma non esiste veramente, tutto è un artefatto e la città diventa la sua stessa cartolina, mentre i suoi abitanti vengono esposti come delle vetrine aperte, attori di una performance da museo che entrano in scena solo quando gli è dato farlo. Certo, la bellezza di Celeste Dalla Porta è indiscutibile e magnetica, fulcro totale del film e dell'attenzione dello spettatore, ma diventa purtroppo invadente, negli sguardi in macchina assillanti, nelle continue domande ripetute (“a cosa stai pensando?”, “che cos'è l'antropologia?”) e nelle risposte a frasi fatte, che spesso odorano d'ipocrisia. La sua appariscenza viene resa divina e non lascia spazio per nessuno, se non per un breve spiraglio emotivo aperto da Gary Oldman, che emerge tra i bukowskiani personaggi secondari, ognuno il ritratto dell'artista ubriaco e depresso.
Un'occasione, questo film, purtroppo non del tutto centrata dal regista, se non per i momenti comici dirompenti, nascosti dietro a un'antropologia che vede, eppure non osserva, né tantomeno scruta, perché si perde dietro a un gioco di specchi teorico e visivo, piuttosto che attaccarsi con piacere alla realtà, anche nei suoi aspetti pragmatici. ‘Parthenope’, come ‘Megalopolis’, è un cinema metafisico e pericolosamente lezioso, che tralascia l'urgenza della credibilità e della trasmissione delle emozioni per esporre, come farebbe un dizionario o il canto di una sirena che, alla fine, non si può veramente ascoltare e apprezzare.