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Maschere, acrobati e sirene, ‘Titizé’ a Lugano

Lo spettacolo veneziano di Finzi Pasca è un caleidoscopio che compone e scompone, ripropone e nasconde, sospesi nel tempo e nello spazio

(copyright_Compagnia Finzi Pasca - Viviana Cangialosi )
24 ottobre 2024
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Una sirena che vola. Questa è una delle immagini impresse negli occhi della giovane spettatrice che mi ha accompagnata martedì sera a teatro. Fotografata da capo a pinna (tre metri!) col cuore, insieme a tanti dettagli di questo ‘Titizé’ che ci ha così meravigliate e affascinate.

Guardare uno spettacolo con occhi molto più freschi e digiuni dei miei, seguirne lo sguardo, ascoltare i commenti sottovoce e osservare i moti di sorpresa, è stata un’esperienza che auguro a tanti. Mi ha permesso di non dare nulla per scontato, di meravigliarmi con lei per dettagli invisibili, ridere dove non andava, vedere le cose prima che accadessero, percepire mosche dietro strati di stoffa e ignorare un elefante che barrisce sul palco. Insomma, la predisposizione ideale per godersi questa ultima creazione di Daniele Finzi Pasca, che dopo la lunga permanenza a Venezia ha portato qui, al Lac, sua altra casa, il suo ‘Venetian Dream’, lo spettacolo prodotto dal Teatro Stabile del Veneto-Teatro Nazionale insieme alla Compagnia Finzi Pasca, in partnership con Gli Ipocriti Melina Balsamo che da anni collabora con l’artista ticinese. Da luglio a pochi giorni fa, infatti, ‘Titizé’ ha abitato uno dei teatri più antichi d’Europa ancora in funzione, il Goldoni, a due passi dal ponte Rialto, nel cuore turistico della città, e lo ha fatto rievocando uno spirito e un respiro veneziani difficili da cogliere nella stagione estiva. C’è la nebbia, il fumo e il mistero, c’è l’acqua, il vento e una dolce malinconia, ci sono i canali a fondo cieco, i fantasmi e il buio, le calli e il lido che si svuota, l’amore e la morte. C’è il mare. C’è il muro di maschere. In un caleidoscopio che compone e scompone, ripropone e nasconde, sospesi nel tempo e nello spazio così come lo sono gli acrobati sui cerchi.

Lo spettacolo risuona internazionalità, è per chi è di passaggio, ma anche per i veneziani, che di solito non entrano in sala in questi mesi dopo la Biennale di Teatro. È in dialetto veneziano e in grammelot, in italiano e tanto altro, e fa l’occhiolino ai turisti distratti e agli inguaribili romantici. Non raffigura ma avvolge, non mostra ma fa sentire, e essere, a Venezia, anche se qui ci troviamo a più di 300 chilometri di distanza. ‘Titizé – “tu sei”, in dialetto veneziano – sta a dirci che possiamo essere tutto e niente, in ciò che stiamo vedendo, e che tutto e niente di quel che vediamo è destinato a ogni tipo di spettatore, del mondo o di casa, fresco o vissuto, volente o nolente. È irresistibile, le citazioni si moltiplicano, tra Pulcinella goldoniani e di Tiepolo, personaggi della tradizione e nuovi, associazioni liberissime (io ho rivisto, nello splendido muro dorato, a un tratto, quel ‘Glory Wall’ di Leonardo Manzan visto qualche anno fa proprio in Biennale, grazie alla coda di un pesce rosso nella bocca di una maschera) e assolutamente non necessarie alla comprensione dello spettacolo. C’è la società dell’epoca e il mondo contemporaneo, che si specchia e si infrange nell’acqua di quei canali inafferrabili e irripetibili. Tanti i quadri, diverse le micronarrazioni in una drammaturgia che rassicurante si fa ritrovare qua e là, con personaggi che tornano e si moltiplicano. Si capovolgono a testa in giù e si nascondono tra il fumo, i laser e le maschere. I costumi di Giovanna Buzzi, che rendono atemporali i personaggi, la musica di Maria Bonzanico, anima storica della compagnia, e le scenografie di Hugo Gargiulo e Matteo Verlicchi, tutto va a comporre in armonia una visione d’insieme, in perenne osmosi. Cito gli artisti presenti tutti, perché di estrema bravura, Andrea Cerrato, Francesco Lanciotti, Luca Marrocchi, Gloria Ninamor, Caterina Pio, Giulia Scamarcia, Rolando Tarquini, Micol Veglia, Leo Zappitelli.

La meraviglia e la leggerezza

La mia giovane spettatrice: si è innamorata dell’empatia clownesca e degli artifici scenici, delle ombre sulle pareti del teatro al di fuori del palco, dei lampi di paillettes, del dialetto veneziano. Di cavalli che entrano in scena dalla platea, per lei nuovissimi e quindi estremamente reali, anche se con due gambe al posto delle zampe, gli scherzi, le mosche e… i bicchieri che suonano, “te li ricordi che li abbiamo sentiti vicino al Ponte dell’Accademia?”. A me è venuto da pensare, con questi dieci incredibili artisti, acrobati-clown-danzatori-cantanti, in quel perpetuo piroettare e girovagare, tra una capovolta e l’altra, che la meraviglia nasce tutta esattamente da questa continua oscillazione, in un cerchio gigante, su funi invisibili, entrando e uscendo scappando e tornando. La meraviglia del movimento ma non solo, quella che si prova quando si staccano i piedi da terra, quando si vede qualcuno volare, il cielo al posto del mare, quando si perde il senso di gravità. E si ritrova, impalpabile e poetica, la leggerezza.

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