Quattro anni fa a Bellinzona, così Glauco Mauri, spentosi il 28 settembre a Roma, parlava del suo rapporto con il teatro e con cinema e televisione
Anni fa, nei panni di Fëdor Pavlovic Karamazov, aveva portato al Teatro Sociale di Bellinzona “uno dei più drammatici viaggi dentro quell’essere meraviglioso e a volte orrendo che è l’essere umano”. A Dostoevskji, ma anche a Beckett e Shakespeare, diceva di dovere “lo spunto per provare a capire la vita”. Così parlava Glauco Mauri nel 2020 in occasione di quei ‘Fratelli Karamazov’, che aveva voluto accompagnare con una generosa intervista alla Regione lungo la quale l’attore e regista, spentosi ieri, 28 settembre a Roma a tre giorni dal compiere 94 anni, descriveva il suo status di decano del teatro ma anche le esperienze televisive e cinematografiche.
A Roma, lo scorso fine settimana, lo attendevano per il ‘De Profundis’ tratto da Oscar Wilde, annullato per indisposizione. Glauco Mauri era nato a Pesaro nel 1930. Dopo avere esordito, 15enne, in una compagnia amatoriale della sua città, si era formato come attore all’Accademia nazionale d’arte drammatica diretta da Silvio D’Amico. L’interpretazione di Smerdjakov, in quello stesso Dostoevskji portato in Ticino, gli aveva dato notorietà nel 1954. Dopo avere lavorato per alcuni anni con la Compagnia Proclemer-Albertazzi, nel 1961 aveva fondato insieme a Valeria Moriconi, Franco Enriquez ed Emanuele Luzzati la ‘Compagnia dei Quattro’, tappa fondamentale della storia del teatro italiano, scioltasi nel 1965. Di lì in avanti, maestro dei classici, Mauri aveva collaborato con i maggiori registi italiani, lavorando soprattutto tra Torino, Genova e Milano, ma toccando anche – diretto da Luca Ronconi – Belgardo, Parigi e Venezia nell’Orestea’ di Eschilo. Nel 1981 aveva fondato insieme a Roberto Sturno, morto nel 2023, la Compagnia Mauri Sturno.
“Dirò la verità”, ci disse Mauri quattro anni fa: “Cinema e televisione mi hanno cercato poco e io non li ho cercati per nulla. La macchina da presa non mi ha mai emozionato, mi emoziona molto di più il silenzio o l’agitazione di un pubblico che devo domare. Mi è sempre interessato di più parlare agli uomini anziché alle macchine”. Sin dall’inizio delle trasmissioni Rai, Mauri alle macchine comunque aveva parlato in occasione delle commedie, delle tragedie e degli sceneggiati televisivi della neonata televisione di Stato per una sessantina di lavori. Così fece anche davanti ai microfoni della prosa radiofonica italiana, tra Roma e Milano. Il cinema aveva chiesto i suoi servigi nel 1964 per ‘La costanza della ragione’ di Pasquale Festa Campanile, nel 1967 per ‘La Cina è vicina’ di Marco Bellocchio e nel 1971 per ‘L’ospite’ di Liliana Cavani. Nel 1975, in ‘Profondo rosso’ di Dario Argento, Mauri interpretava il professor Giordani, tre anni più tardi il padre di Michele (Nanni Moretti) in ‘Ecce bombo’. Il cinema si ferma qui. “Sì, gran cosa”, commentava l’attore a Bellinzona, limitatamente alla stagione d’oro della prosa Rai: “Per carità, io non sono una persona che dice che il passato è sempre meglio del presente, tutt’altro. Certo, finché c’erano grandi attrici e attori che recitavano in tv cose importanti, a me è piaciuto e mi è servito. Oggi in televisione vedo cose inenarrabili, al di là del bene e del male”. Del ‘suo’ teatro, aveva detto: “L’ho amato, perché sul palcoscenico potevo essere tutto quello che non ero nella vita. Nella vita ero grasso, avevo i denti storti, non ero brillante. In teatro potevo essere tutto. Anche un poeta”. E ancora: “Credo che nel mio piccolo il mio lavoro possa servire non tanto a far dire che recito male o bene una battuta, quanto a far comprendere che come interprete io posso ancora regalare al pubblico la poesia e l’umanità dei grandi autori che hanno scritto per il teatro e per gli uomini”.