laR+ La recensione

Il timido e inconsistente ritorno dello spiritello porcello

‘Beetlejuice Beetlejuice’, secondo capitolo del film del 1988, è in sala. Con meno irriverenza e tanta facile nostalgia

Nelle sale
12 settembre 2024
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Il panorama audiovisivo americano contemporaneo, e non solo, sembra ormai essere fuori controllo, tanto che si potrebbe tranquillamente parlare di saturazione o crisi dell’immagine. La vera autorialità è sempre più sepolta dietro alle operazioni di mercato incessanti e bombardanti gli spettatori: saghe, reboot, remake, prequel, sequel, serie e miniserie la fanno da padrone e mostrano in maniera evidente la tendenza moderna di riesumare, piuttosto che creare qualcosa di nuovo. Non è assolutamente estraneo a questa dinamica Tim Burton, che ritorna in sala con ‘Beetlejuice Beetlejuice’, seguito che esce a distanza di trentasei anni dal primo capitolo e che è l’ennesimo cult rimaneggiato, senza che si riesca a scorgerne l’urgenza, la motivazione, l’interesse, se non per una fetta di vecchi fan, saldamente ancorati all’effetto nostalgia.

La trama. Lydia torna a casa a Winter River, in occasione del funerale del nonno Charles, accompagnata dalla figlia Astrid e il compagno Rory, manager del programma di cacciatori di fantasmi di successo che la donna conduce. Il rapporto madre-figlia è molto teso, causa la morte prematura del padre Richard e lo scetticismo di Astrid, che crede Lydia una specie di truffatrice. Riscoprendo il modellino in soffitta, che porta all’aldilà di Beetlejuice, riaffiorano anche i traumi passati di Lydia, mentre Astrid viene tratta in inganno da un giovane fantasma, che vuole prendere il suo posto tra i vivi. Alla ricerca della figlia, Lydia è costretta a chiedere aiuto proprio a Beetlejuice, a sua volta braccato dall’ex moglie vendicativa, quindi affronta il proprio passato e le proprie paure per liberarsi finalmente dal malizioso spiritello.

‘Beetlejuice Beetlejuice’ è un monumento autocelebrativo che si inserisce senza sorpresa nella filmografia di Tim Burton, lontano dai fausti gotici del passato e dalle grandi sceneggiature (‘Ed Wood’, ‘Big Fish’), suscitando molti dubbi e perplessità, come avviene ormai da ‘Alice in Wonderland’. Non tanto per il fatto che questo nuovo episodio non sia valido, piuttosto perché non si riesce a vederne il motivo d’esistenza. L’era del riciclo prosegue, dunque, e sembra un’operazione disneyana, questa riesumazione di cadaveri, forse perché raccontare l’oggi è diventato difficile, anche perché detiene un rischio intrinseco e meno remunerativo, piuttosto che riproporre vecchi successi consolidati. In assenza di ambizione e con la volontà, disperata pare, di suscitare le risate, attraverso una comicità pop che ha fatto il suo tempo, a rutti e pernacchie, rimane un senso di vuoto; i racconti e le storie dei personaggi, alcuni superflui, si intrecciano, ma non esistono davvero, semplicemente convergono in un finale telegrafato, a tarallucci, che si risolve con una sorta di cavillo burocratico. La scenografia che compone la bellissima ambientazione dell’aldilà, a metà tra il ‘Caligari’ di Wiene e ‘Il processo’ di Welles, seppur molto appagante, non basta a tenere in piedi il film, che poggia su una struttura traballante, non supportata da un cast esagerato e poco accattivante: molti risultano piuttosto bidimensionali e monoespressivi, da Winona Rider a Jenna Ortega a Monica Bellucci, e non da ultimo Michael Keaton, caricatura di sé stesso. Quindi Willem Dafoe è l’unico a riuscire veramente a risultare piacevole e divertente, nonostante la totale mancanza di utilità del suo personaggio ai fini della trama.

La mescolanza di stili visivi differenti non aiuta una visione già gravosa per i non appassionati del regista, ‘Beetlejuice Beetlejuice’ risulta dunque piuttosto teatrale, un prodotto che ha poco o niente da dire, mascherato dietro a belle immagini e freschezza giovanile, nella media dei teen movies e dei film per famiglie ma che, grazie a un certo nome e cast, è approdato in anteprima al festival di Venezia, nonostante l’autorialità che sta dietro alla macchina da presa sia sempre più labile, anch’essa divenuta ormai un fantasma, sempre più invisibile agli occhi di chi non si accontenta di una mera e semplice operazione nostalgica.