Se la si guarda cercando le cose piccole e non il Grande Racconto Sociale, quella creata da Christopher Storer è anzitutto una serie scritta benissimo
“Ogni romanzo è un susseguirsi di racconti, di storie che si vanno intrecciando”. È una frase di Roberto Bolano (L’Ultima Conversazione, Sur) con cui lo scrittore cileno parlava in difesa di quelle opere aperte - non solo le sue - in cui la struttura non è lineare e l’autore sembra perdere il filo, che torna in mente a proposito di The Bear. La serie di Disney+ su un cuoco hipster di Chicago è giunta alla terza stagione (con la quarta che non dovrebbe uscire tra molto, considerando che è stata girata insieme a questa già online) ma non è difficile ricordare quando è uscita la prima e si pensava dovesse finire subito. Una serie lunga solo una stagione, che aveva poche cose da raccontare e lo aveva già fatto. E cioè: il ritorno del figliol prodigo Carmy Berzatto nella panineria zozza di famiglia, dopo un apprendistato che lo aveva portato nel miglior ristorante del mondo a New York. A lavorare con i cuochi tecnicamente migliori ma umanamente, si sa, spregevoli. Carmy tornava per gestire il locale lasciatogli dal fratello suicida, con tutto il carico di rimorsi, sensi di colpa, complessi di superiorità nei confronti dello staff e del resto della famiglia; e per trasformarlo in un ristorante stellato. Lo showrunner, regista e sceneggiatore, Christopher Storer, veniva dal mondo dei documentari e aveva descritto entrambi i mondi - la cucina di lusso e la Chicago dove ci si saluta gridandosi “fuck you” in faccia - nei minimi dettagli.
Eravamo tristi, dispiaciuti che finisse. Le città occidentali si erano riempite di Birkenstock Tokyo (i sandali di cuoio aperti sul tallone) e i maschi bianchi depressi e narcisisti avevano un nuovo personaggio in cui rivedersi, interpretato da un attore che nel giro di poco, come accade oggi, è diventato uno dei più alla moda. Jeremy Allen White con lo sguardo all’ingiù di un Labrador, tormentato come il giovane Werther ma muscoloso come un Rambo giocattolo (dove lo trova il tempo per andare in palestra un cuoco stellato, e perché non lo vediamo mai sollevare pesi?, è una domanda ancora senza risposta dopo tre stagioni). Possibile che non vedremo più le sue belle braccia strizzate nelle maniche corte di magliette bianche, coi tatuaggetti incollati a caso tipo figurine? Ci sembrava un peccato che The Bear fosse già finita.
Al tempo stesso, se l’unica storia che The Bear aveva da raccontare era quella di Carmy che recupera il locale dal fratello morto e fa i conti col proprio passato, portando dalla sua parte - la parte dell’eccellenza e del dolore- quella truppa di scappati di casa capitaneggiata dal cugino Richie, refrattario a ogni cambiamento, beh, una stagione bastava e avanzava. Se il cuore della serie era farci capire che la cucina è una metafora dell’inferno, ci eravamo arrivati (e forse bastava Anthony Bourdain).
Tanto più per questo motivo è ironico che oggi quello che si rimprovera a The Bear è che abbia voluto espandersi come una macchia d’olio, andando oltre Carmy e, in un certo senso, anche questa cosa della cucina come espressione artistica. L’ultima stagione, in cui Carmy prova a trasformare quella panineria popolare in un ristorante stellato, secondo il New Yorker, è “troppo imbottita e troppo poco cotta”. C’è poca cucina, ha detto qualcun altro, e in effetti un episodio è incentrato sul parto di Natalie, la sorella di Carmy, ed è quasi interamente ambientato nella sua stanza di ospedale. La risposta la dà The Bear stesso nell’ultima puntata della stagione. “Le persone non ricordano il cibo”, dice Terry, la cuoca-maestra-di-vita di Carmy, interpretata dalla straordinaria Olivia Coleman. “Le persone ricordano le persone”. È l’insegnamento che dà ai suoi discepoli, riuniti nel suo ristorante per l’ultima cena prima della chiusura definitiva del ristorante, ma anche agli spettatori. Dalla seconda stagione in poi The Bear cerca di criticare il mondo della gastronomia glamour, e tossica, patriarcale, da cui viene e che ha contribuito nel suo piccolo a mantenere appetibile. Superando l’egomania di Carmy (e il fascino di Jeremy Allen White).
La bellezza di The Bear sta in questa ambivalenza, nell’attrazione-repulsione che proviamo per un cuoco pazzo che decide di cambiare menù tutte le sere nella speranza di diventare sempre più bravo. Il realismo della serie è il punto di partenza ma più in profondità The Bear racconta quell’idea di creatività maledetta - “Se mi libero dei miei demoni, perdo anche i miei angeli”, come ha detto Tennesse Williams in un’intervista a Playboy del 1973 - che paradossalmente raggiunge il suo apice nel mondo della gastronomia di alto livello. Un’idea che nuoce alla salute mentale, che alimenta depressione e sadomachismo in nome di una competizione tutti contro tutti che dovrebbe portare a migliorarci. Se l’essenza del capitalismo è esattamente questa ricerca impossibile della felicità a discapito degli altri, The Bear sta cercando di dirci che non ne vale la pena.
Nel sesto episodio, “Fazzoletti” (con la regia di Ayo Edebiri, l’altra protagonista della serie oltre a Jeremy Allen White), viene raccontato il modo in cui Tina arriva a lavorare nel ristorante del fratello di Carmy. Madre afroamericana ultraquarantenne, Tina ha appena perso il lavoro che aveva svolto tutta la sua vita e gira Chicago scontrandosi con impiegati di venti anni più giovani che neanche vogliono prendere in mano il suo curriculum. Quando esplode in lacrime davanti al fratello di Carmy, senza sapere che quello sarà il suo prossimo capo, in un discorso che in un certo senso è anche un’intervista di lavoro, dice: “Non mi interessa essere ispirata, essere magica, voglio solo portare il cibo in tavola per i miei figli”. È una retorica in totale contraddizione con lo spirito che in apparenza dovrebbe animare la serie.
Ma, appunto, The Bear non parla di quello di cui le persone pensano parli veramente, o di cui vorrebbero che parlasse. Carmy non è un genio maledetto con una visione in testa, che le persone mediocri come il cugino Richie fanno fatica a seguire. Carmy avrebbe bisogno di aiuto - e lo riceve anche, sotto forma di storia d’amore - ma lo rifiuta, come tutte le persone veramente autodistruttive. La cucina non è l’origine dei suoi problemi, semmai l’unico posto dove si sente pienamente se stesso (a capire questo aiuta anche la colonna sonora dell’ultima puntata, con gli Weezer che cantano: “In the garage I feel safe”). Sono i rapporti umani che lo torturano. Ed è dei rapporti umani che si sviluppano attorno alle postazioni di una cucina professionale che The Bear in realtà parla, come fosse un racconto post-moderno. Se la si guarda da questo punto di vista, cercando le cose piccole e non il Grande Racconto Sociale che si pretende ogni serie rappresenti, The Bear è anzitutto una serie scritta benissimo. Ci sono alcuni scambi che, in poche parole, danno la diversa temperatura - cottura - dei personaggi. Tipo questo brevissimo tra Carmy e l’amata Claire: “Quando ero piccolo amavo i mercoledì”, dice lui. “Perché era passata già metà della settimana? Io invece ti confesso una cosa: mi piacciono i lunedì”, risponde lei. Breve silenzio, e poi Carmy ci arriva, capisce Claire. E dice: “Tutto è ancora possibile”. È un momento poetico, che Carmy subito rovina, quando dice di non amare la domenica perché il ristorante è chiuso. “Ansia per il week-end?”, chiede lei. “Ansia perché non ho niente da fare”.
The Bear è piena di momenti che restano nella retina e nella memoria di chi la guarda, che in appena tre stagioni è riuscita a far vivere ogni personaggio di una vita propria, a farlo camminare per la propria strada. E questo non si può dire di tutte le serie. Anche la forma “aperta” con cui è costruita, sempre con grande attenzione alla resa reale delle cose - l’ultimo episodio, con veri cuochi che parlano delle loro esperienze è un piccolo capolavoro ibrido di finzione e realtà - ma con episodi a volte a sé stanti, apparentemente slegati dal resto della struttura, è una scelta ambiziosa e significativa. Così, The Bear può permettersi quaranta minuti della faccia vecchia, non rifatta, e per questo bellissima, di Jamie Lee Curtis, graffiata dalle rughe come una tela scarabocchiata di Cy Twombly, a confronto col volto giovane e malinconico da madonna triste di Abby Elliott. Quale altra serie arriva a picchi del genere? “Cubetti di ghiaccio”, l’episodio girato in sala parto, sul confronto e il ricongiungimento tra una madre pazza e una figlia che prova a tutti i modi a non essere come lei, è uno di quegli episodi che, da solo, vale come un piccolo film (come era già successo sull’episodio dei “Sette pesci” della stagione precedente).
Certo, The Bear è un lungo e interminabile esercizio di stile. Ma non è proprio questo che offrono i ristoranti stellati? Potremmo tranquillamente sopravvivere con panini al prosciutto, qualche foglia di insalata e una mela, oppure con del cibo in polvere, proteine, carboidrati etc. E invece cerchiamo abbinamenti particolari, sorprendenti, nei casi più lussuosi piatti commestibili che somiglino a quadri astratti. È chiaro che il punto non è mangiare. Il punto, va da sé, sono le persone.