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I draghi sono arrivati. E adesso?

Abbiamo passato otto anni guardando ‘Game of Thrones’ aspettando di poter vedere i draghi.

(keystone)
20 luglio 2024
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Abbiamo passato otto anni guardando ‘Game of Thrones’ aspettando di poter vedere i draghi.

Per quanto in Cgi, i draghi di Daenerys Targaryen – appunto, “mother of dragons” – erano una delle principali attrattive della serie, fin dalla prima stagione, quando fanno la loro comparsa nell’ultimo episodio. Ma non erano “pronti” da subito. Sono usciti dalla pira funeraria che Daenerys aveva eretto in onore del marito, e in cui poi si era immolata, sacrificando se stessa e le uova di drago che le erano state donate al momento delle nozze, salvo però sopravvivere e uscirne come nuova insieme ai suoi tre cuccioli. Li abbiamo letteralmente visti crescere, frustrati dal fatto che dovevamo aspettare per vederli volare e sputare fuoco; annoiati perché, come dei Tamagotchi qualsiasi, i cuccioli di drago sono più un problema nella gestione della routine familiare che un’arma di distruzione di massa.

I draghi erano la promessa con cui ‘Game of Thrones’ ci ha tenuto appesi per anni, inchiodati davanti allo schermo a seguire vicende di famiglie di cui confondevamo nomi e sottotrame – a eccezione dei fan dei libri di George R. R. Martin da cui la serie era tratta, che invece hanno passato otto anni a indignarsi per ogni piccola differenza tra libri e serie. I draghi e gli zombie di ghiaccio, certo, anche loro ci hanno messo otto stagioni ad arrivare alle porte del regno umano: metafora del climate change per qualcuno, del ritorno dei fascismi per altri, gli zombie di ghiaccio e il loro capo si sono fatti aspettare come il Godot di Beckett, per poi svanire sul più bello. Ma quello che aspettavamo erano soprattutto i draghi. Che poi sono cresciuti mantenendo anche loro solo parte delle promesse, incendiando barche ed esseri umani, senza però soddisfare fino in fondo il nostro appetito: dopo otto stagioni di ‘Game of Thrones’ non eravamo ancora soddisfatti, ne volevamo di più.

Volevamo i draghi? Ecco i draghi

Nel frattempo il potere di Hbo ha costretto George Martin ad accettare che gli sceneggiatori della serie finissero la storia al posto suo, lasciando ancora oggi, cinque anni dopo, i libri senza un vero e proprio finale. E per soddisfare il nostro appetito hanno dato vita ad ‘House of the Dragon’, una serie prequel sulla faida interna alla famiglia Targaryen, nel cui sangue scorre qualcosa (ormoni?) che i draghi riconoscono e che li rende docili nei loro confronti, permettendogli di salire sul loro dorso e guidarli come fossero cavalli nel dressage. Ogni Targaryen ha il suo drago. Per cui, ambientata più o meno duecento anni prima ‘Game of Thrones’, in un mondo però tutto sommato identico (con personaggi ancora più difficili da distinguere tra di loro, se non altro perché la metà del cast indossa una parrucca ossigenata da membro della famiglia Targaryen) ‘House of the Dragon’ è piena di draghi. Così tanti draghi che adesso non confondiamo solo i personaggi, ma anche i draghi.

Draghi piccoli, draghi grandi, draghi giganteschi. Draghi rossi, draghi marroncini, draghi giovani, draghi vecchi – draghi maschi e draghi femmine ma sulle differenze anatomiche la serie non scende in particolari –, draghi con le ali merlate, piene di buchi come delle foglie assalite dai parassiti, draghi che ruggiscono per sgranchirsi la gola, che gridano desolati quando il loro padrone è triste, draghi a cui manca solo la parola, draghi che combattono contro altri draghi.

Il segreto di una serie

Eppure, ancora durante il secondo episodio della seconda stagione di ‘House of the Dragon’ – dopo 14 episodi, cioè, di questa nuova storia – chi soffriva di narcolessia già con ‘Game of Thrones’ ha continuato ad addormentarsi. Ma come è possibile, abbiamo aspettato tutto questo tempo e adesso che abbiamo draghi a volontà continuiamo ad addormentarci? Forse allora il punto non sono i draghi, non lo sono mai stati.

Poi finalmente arriva un grande episodio, il quarto della seconda stagione, intitolato ‘Il drago rosso e il drago dorato’. Perché se ‘Game of Thrones’ ha fatto fortuna sulla fanbase di Martin e sul generale ritorno a narrazioni fantastiche dopo gli anni d’oro delle serie tv più o meno realiste (‘I Soprano’, ‘Breaking Bad’, ‘Mad Men’, ‘Six Feet Under’: tutte serie senza draghi, fateci caso) gli sceneggiatori sono stati in grado di attrarre nuovo pubblico con episodi densi come grossi cucchiai di miele intorno a cui far arrivare le formiche. Il ‘Red Wedding’ (stagione terza, nono episodio), con cui gli sceneggiatori Benioff e Weiss vinsero un Emmy, viene ricordato ancora oggi come esempio delle potenzialità narrative di ‘Game of Thrones’, uno standard che il seguito della stessa serie non è riuscito a rispettare.

Anche se racconta storie precedenti di secoli, ‘House of the Dragon’ ripartiva dalla delusione del pubblico successiva all’ultima tremenda stagione della sua serie madre. Gli sceneggiatori sono diversi e hanno messo mano a un materiale di partenza persino piuttosto complesso: il romanzo ‘Fire and Blood’, sempre di George Martin, è scritto nella forma di un finto trattato storico, con inserti di finte fonti originali. Per andare in fretta la prima stagione di ‘House of the Dragon’ aveva ubriacato gli spettatori con salti nel tempo e conseguenti cambi di attori, raccontando frettolosamente un intreccio di screzi e invidie familiari ai limiti del gossip. Situazione peggiorata dal fatto che per i Targaryen è normale sposarsi tra fratelli e sorelle e cugini, creando rapporti ancora più complicati (sorelle che sono anche zie, figlie che sono nipoti, e così via). Difficile mettere ordine in quell’intrico di legami e motivazioni che gli sceneggiatori hanno privilegiato sulla costruzione dei personaggi. Più che a ‘Game of Thrones’, allora, ‘House of the Dragon’ rischiava di somigliare a soap opera come ‘Dallas’ o ‘Beautiful’, con Matt Smith nei panni di Daemon Targaryen invece di Ron Moss in quelli di Ridge Forrester.

Il peso di ‘Game of Thrones’

Oltretutto, trattandosi di un prequel, il pubblico conosce già le conseguenze delle vicende che ‘House of the Dragon’ racconta. Sa che i Targaryen, tutti, ne usciranno male. In un modo o in un altro la lotta fratricida tra la regina Rhaenyra e il ramo della famiglia disceso dalla sua amica/matrigna Alicent Hightower, farà piombare la famiglia Targaryen nell’oblio (fino a Daenerys e i suoi cuccioli di drago, come già detto). E forse anche per questa nostra consapevolezza la guerra scatenata da una serie di scaramucce ed equivoci tra cuginetti (soprattutto: dall’assenza di un notaio che registrasse le parole del re Viserys in punto di morte, riguardo la sua successione) ci sembra particolarmente stupida, inutile. Come tutte le guerre d’altra parte, con un minimo di prospettiva.

‘Il drago rosso e il drago dorato’ ha cambiato leggermente le cose, facendo nuove promesse che adesso la serie dovrà provare a mantenere. Innanzitutto perché, dopo lunghissimi preparativi, ci ha dato finalmente una battaglia tra draghi. Che in realtà non sono due, come nel titolo, ma tre. I due nel titolo sono Sunfyre, il più bel drago del mondo, bianco, elegante, praticamente un labrador che sputa fuoco; e Meleys, un drago femmina rosso, veloce e con esperienza in battaglia. È il terzo drago, però, che si ruba la scena, il terribile, crudele e gigantesco Vhagar, praticamente la bomba atomica di ‘Oppenheimer’ nel mondo di George R.R. Martin. Gli autori televisivi si sono sforzati di riportare i dettagli perversi di cui Martin riempie i suoi libri – ad esempio il sangue di drago è bollente e ferisce come napalm i soldati sui quali cade dal cielo, nel campo di battaglia sottostante – e il momento in cui i tre draghi sono l’uno contro l’altro riesce a toccare per la prima volta un minimo la nostra emotività. In una serie in cui, finora, sono stati accecati e decapitati bambini, uno è stato persino mangiato in aria da un drago come un croccantino preso al volo da un cane, ci voleva uno straziante combattimento tra draghi urlanti in mezzo al fuoco e alla cenere, per dare un senso a quella serie di intrighi familiari.

Un mondo lontano che si fa vicino

Resta di minore importanza chi cavalcasse i draghi. Non per la trama della serie, certo, anzi in questo senso ‘Il drago rosso e il drago dorato’ segna un punto di non ritorno interessante, come facevano tutti i colpi di scena di ‘Game of Thrones’, ma al momento gli esseri umani della serie sono quasi tutti bidimensionali, sentimentali o cinici sempre in modo un po’ meccanico, con battute meno profonde dei muggiti dei draghi. Il fatto stesso che si tratti di armi di distruzione di massa, ha preso un senso più chiaro e drammatico alla fine dell’episodio, sconvolgendo il mondo dei semplici soldati e stravolgendo i piani degli strateghi. Con i draghi in ballo, non c’è più niente di umano nella guerra. La confusione, nelle scene finali dell’episodio, ricorda quella dei film di guerra, scene cariche di una violenza così assurda da diventare quasi esistenzialista.

E così il mondo fantastico e tutto sommato innocuo di cugini e cugine che litigano per uno stupido trono di ferro fatto di spade fuse insieme, dall’aria scomodissima, ha fatto tutto il giro, e grazie ai draghi ha finito per parlarci del nostro mondo. Con una minaccia nucleare mai così presente nel nostro quotidiano da più di quarant’anni, la vacuità dei personaggi di ‘House of the Dragon’ e la superficialità di quelle corti ci ricorda quella dei nostri politici e dei nostri governi. Non è difficile immaginare i peggiori protagonisti della nostra contemporaneità seduti sul dorso di draghi immaginari mentre inceneriscono intere porzioni di un territorio individuato come “nemico”. E se vi sembra puerile guardare dei draghi fatti al computer, pensate quanto possa esserlo fingere di cavalcarli e incendiare persone in carne e ossa come fossero semplici comparse.

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