Torna al Teatro alla Scala dopo 44 anni il capolavoro di Massenet in una nuova produzione
I due Werther, quello di Goethe e quello di Massenet e i suoi librettisti, sono inevitabilmente diversi. Il primo non è più solo l’eroe preromantico che esalta i diritti del cuore su quelli della ragione, ma il precursore del moderno nichilismo, colui che afferma la fine dell’illuminismo e l’avvento di una cultura giovanile moderna che dichiara la vita solitudine e angoscia.
Malinconico, depresso, un po’ dandy, scopre la forza rovinosa dell’amore con il desiderio fisico e la sessualità, respinti a fatica dall’amata Charlotte. Non è un caso che ‘I dolori del giovane Werther’, uscito nel 1774 – anche se l’edizione canonica è la seconda, del 1787 – sia divenuto in breve un best seller europeo, che diede al suo venticinquenne autore fama imperitura. Il compositore francese Jules Massenet si accosta al romanzo epistolare di Goethe un secolo più tardi, su indicazione del suo editore e librettista Hartmann, che glielo consegna al ritorno da un viaggio a Bayreuth per assistere a ‘Parsifal’. Terminata nel 1887, l’opera non trova interesse negli impresari parigini e deve aspettare cinque anni prima di andare in scena in traduzione tedesca a Vienna nel febbraio 1892, mentre la prima rappresentazione in lingua originale francese è del dicembre dello stesso anno al Grand Théâtre di Ginevra.
I tre librettisti (Blau, Milliet, Hartmann) lavorano a un dramma intimo, in cui la figura e la vicenda di Werther sono semplificate e rese decifrabili per il pubblico, nonché teatralmente efficaci. Il protagonista è definito un sognatore – e le parole rêve, rêveur, réveiller tornano a più riprese nel libretto –, non ha aspirazioni artistiche né sentori prerivoluzionari come il Werther di Goethe, è un diplomatico in buoni rapporti con la nobiltà, con Charlotte è amore a prima vista, immediato e reciproco (nel romanzo di Goethe l’amore di Charlotte per Werther si manifesta solo alla fine, anche se la giovane sposa non si nega a giochi di seduzione con il suo aspirante amante) e con il marito di lei Albert si configura il classico triangolo amoroso: una vicenda borghese che trova riscontro nel grande teatro di prosa nordico, Ibsen in testa.
Due Werther diversi, ovvero due diversi capolavori. Il ‘Werther’ attualmente in scena al Teatro alla Scala porta la firma del regista e coreografo Christof Loy, che sottolinea nel protagonista l’aspetto di una solitudine implacabile e autodistruttiva, da subito foriera di morte. Interessante il suo lavoro sui personaggi. All’inizio del dramma Charlotte è fidanzata con Albert a causa di una promessa fatta alla madre in punto di morte, non lo ama e forse ne ha qualche ragione. Nella visione del regista, Albert non è il fedele futuro marito che la tradizione ci ha consegnato, ma colui che attenta alla virtù della più giovane sorella di Charlotte, Sophie. E la ragazza, pur interessata a Werther, non disdegna l’approccio del futuro cognato. Si configura quindi un quartetto emotivo, una sorta di versione tragica delle ‘Affinità elettive’, la cui atmosfera si respira già nel ‘Werther’ di Goethe.
Il regista sceglie di dividere la scena in uno spazio antistante la “casa di bambola”, essenziale e neutro, ed è lì che avviene l’azione. La porta centrale si apre sull’interno che mostra una tavola apparecchiata o l’albero di Natale, epicentro di quella tranquilla vita borghese cui Werther anela – nella quale alla fine entrerà solo per uccidersi – e che Charlotte invece aborrisce. Alla morte di Werther assistono non solo Charlotte, ma anche Albert e Sophie, ciascuno chiuso nel proprio isolamento. La scelta registica di Loy, per quanto coerente, funziona meno bene nel quarto atto che vede Werther moribondo cadere a terra disteso, poi rialzarsi in piedi, poi in ginocchio, in una serie di movimenti artificiosi.
Le attese nei confronti dell’interprete di Werther, il tenore francese Benjamin Bernheim interamente formatosi in Svizzera, non sono andate deluse. La sua voce si disegna nobile ed elegante come la sua presenza in scena, intensa negli acuti, strappando un applauso a scena aperta alla seconda rappresentazione, con la celebre aria “Pourquoi me réveiller”. Meno convincente l’interprete di Charlotte (Viktoria Karkacheva), soprattutto sul piano della recitazione, mentre fresca e travolgente si impone la vibrante Sophie di Francesca Pia Vitale. Ottimo l’Albert di Jean-Sébastien Bou, cui il regista regala la bella scena non scritta del marito che legge in silenzio le lettere d’amore di Werther alla moglie. La musica di Massenet con le sue mille nuances, sognante e appassionata, tenera e dolente, drammatica e densa di ‘leitmotive’ evocativi, trova nel direttore d’orchestra Alain Altinoglu – direttore musicale del Théâtre de La Monnaie a Bruxelles – l’interprete ideale, un cesellatore raffinato e attento. E un pubblico internazionale applaude estasiato questo ‘Werther’ in scena a Milano fino al 2 luglio.