Tra opere di pura invenzione e libri d'impronta più biografica e sceneggiature: a colloquio con Giordano Meacci, sabato 4 maggio a ChiassoLetteraria
Romano, classe 1971, Giordano Meacci è uno scrittore costantemente immerso nelle parole, come se il confine tra il mondo e la scrittura si fosse indebolito e la vita, nella sua oralità ed estemporaneità, potesse cristallizzarsi davanti agli occhi, pronta a diventare subito racconto.
Romanziere, sceneggiatore e saggista, Meacci si occupa di temi legati alla lingua e alla scrittura letteraria muovendosi con agilità tra diversi generi e attingendo da materiali eterogenei. Nella sua bibliografia troviamo opere di pura invenzione come il romanzo d’esordio ‘Il cinghiale che uccise Liberty Valance’ (Premio Lo straniero 2016 e finalista al Premio Strega) e libri di impronta più biografica, come ‘Improvviso il Novecento’, saggio-diario di viaggio attorno alla vita di Pasolini professore.
‘L’acchiappafantasmi’ (Minimum Fax 2023) è un vero e proprio canzoniere in prosa dove l’autore ripercorre gli anni della sua vita etimologica di lettore passando da Giordano Bruno a Bob Dylan senza dimenticare il cinema di Ettore Scola.
La sceneggiatura del film ‘Non essere cattivo’, scritta con Francesca Serafini e Gaetano Callegari, viene candidata al David di Donatello 2016 e vince il Premio Amidei. A essa seguono ‘Fabrizio De André – Principe libero’ e ‘Carosello Carosone’, che si aggiudica il premio Flaiano 2021 per la sceneggiatura televisiva.
Meacci sarà ospite di ChiassoLetteraria sabato 4 maggio alle 11 per dialogare dei fantasmi della scrittura con gli studenti del liceo di Lugano e col poeta-docente Massimo Gezzi.
Lei ha fatto della lingua il centro del suo lavoro. La sua è (anche) una scrittura che riflette sulla scrittura e sugli scrittori che l’hanno preceduta. Sulla quarta di copertina di ‘L’Acchiappafantasmi’ leggiamo “è un libro per chi pensa che letteratura e vita siano due parole per indicare la stessa cosa. Anzi. Soprattutto per chi pensa che la vita sia una delle più riuscite invenzioni della letteratura”. Che cosa intende?
Credo che uno scrittore abbia un’unica e sola possibilità: usare la lingua azzardando una creazione di bellezza. Sono profondamente convinto che la vita che viviamo coincida con quella che ci raccontiamo, che riscriviamo mentre la viviamo e che ricorderemo nella memoria attraverso una selezione di frammenti. Siamo composti dalle parole che diciamo, dalle persone che incontriamo, dai film che vediamo. Ecco allora che la letteratura diventa un modo per fermare il bello quando ce lo ritroviamo davanti e, al contempo, per combattere quel baratro oscuro che cerchiamo ogni giorno di dimenticare. In questo senso la letteratura narra la vita perché diventa uno strumento per andare di là dal tempo.
Può sembrare un azzardo ma quando penso alle pagine che mi hanno fatto intravedere una luce, vedo prima di tutto la forma delle parole usate per descrivere la vita. Tra le pagine di ‘Gente di Dublino’ o di ‘Il nome della Rosa’, ad esempio, intravedo una delle infinite vite che avrei potuto vivere o che persone prima di me hanno vissuto.
Lei si è occupato anche di opere di impronta biografica: in ‘Lui, io, noi’ ripercorre insieme a Dori Ghezzi e a Francesca Serafini la vita di Fabrizio De Andrè mentre in ‘Improvviso il Novecento’ parla di Pier Paolo Pasolini professore. Cosa accade quando le persone diventano personaggi?
Cito una frase molto giusta di Valentina Bellè, che nello sceneggiato ‘Fabrizio De Andrè - Principe libero’ interpreta Dori Ghezzi: mi sono ritrovata per la prima volta a recitare avendo sul set la persona che dovevo incarnare. Pensare sempre di avere di fronte il personaggio che sto interpretando mi è servito moltissimo nei ruoli successivi.
Quando si racconta una persona, soprattutto se non è una biografia storica rigorosa, bisogna cercare di restituire una suggestione, un’atmosfera, un pensiero di qualcuno che è passato nel mondo per poi diventare, con la sua opera, un simbolo. È necessario, per prima cosa, avere rispetto della figura raccontata. Le opere non riuscite in arte sono, secondo me, quelle che celano un giudizio morale. Bisogna distinguere tra l’attività della scrittura di finzione e l’intervento militante. Sono dalla parte di Brodskij quando afferma che in arte l’etica è ancella dell’estetica e penso anche a Whitman che, a proposito delle biografie, si chiedeva se fosse proprio questa la vita di un uomo.
Sono parecchie anche le sue sceneggiature scritte per cinema e Tv. Come cambia la lingua a seconda del contenitore che la contiene?
L’impegno con cui ci si pone di fronte al testo deve essere sempre identico. Nella mia formazione ho attinto indistintamente da Ettore Scola, Umberto Eco, Ennio Flaiano o Sergio Amidei. Sono fantasmi vivi che evoco quotidianamente. L’importante è tenere conto della differenza tecnica legata ai vari tipi di scrittura. In una sceneggiatura che presuppone una resa visiva devo pensare anche all’immagine, adattare la scrittura al parlato, creare dialoghi credibili. Questo avviene anche in un romanzo, ovviamente. Amo molto inserire corsivi, creare un eloquio forbito, dare intenzioni che però non saprò mai in che modo verranno recepite da un lettore.
In un film, invece, so per certo che quella frase verrà recitata, dovrò dare al personaggio un modo di parlare, un’inflessione dialettale e inserirlo in un determinato momento storico. ‘Non essere cattivo’, ad esempio, è ambientato 20 anni prima di quando è stato girato e questa discrepanza trasforma la pellicola in un film storico, perché il gergo e il dialetto cambiano anche a distanza di pochi anni. Ed è più difficile riuscire a essere precisi perché la differenza è sottile. Fondamentale in questo lavoro è porsi domande sulla forma scritta che si va frequentando.
Come ha iniziato a scrivere? Qual è stato il momento in cui si è costretto a sedersi a un tavolo e a darsi una disciplina?
Non ricordo un solo momento della mia vita in cui non abbia scritto. La cosa che mi divertiva di più da bambino era inventare strane storie. Una volta la mia professoressa delle medie consigliò a mia madre di stare attenta a quello che diceva in casa perché Giordano non dovrebbe raccontare proprio tutto, tutto. Questo ricordo lo tengo stretto, lo considero un inizio iperrealista della mia volontà di dare una forma linguistica al mondo. Per me una cosa accade quando la vivo e quando la ripenso. Ho questa strana tendenza a vedere scorrere le stesse parole che dico su una sorta di schermo. Noi pensiamo e viviamo a parole. Fanno parte di noi e noi facciamo parte di loro. Sono come gli amori. Non mutano, anche se alcune con l’andare degli anni perdono forza, ma si sommano ad altre parole per diventare il tempo che hai vissuto. Bisogna scrivere responsabilmente, Un po’ come bere. Mi piace questo accostamento tra l’ebbrezza dell’alcol e l’ebbrezza della bella scrittura.