laR+ L’intervista

Parola di Francesco Baccini, acustico e apolide

‘La discografia mi voleva triste’. ‘Tenco ha aperto ogni strada’. Tra amici e colleghi, ‘Jannacci era il più poeta di tutti’. Il 27 aprile a Bellinzona

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23 aprile 2024
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«A Genova ci passo quando vado allo stadio. Abito sul Lago di Como, sono un salmone che dal mare è finito al lago passando per il fiume. Sono un apolide. Dove sto ora, anche se non c’entro nulla, mi sento uno di casa. Però il mio sogno sarebbe essere uno straniero che vive in Italia, Paese nel quale stai bene solo se non ci hai niente a che fare. Tipo Sting». Dunque, chiamatelo ‘genovese’ solo per legami con la nota scuola di cantautori nata in questi posti davanti al mare.

Con Francesco Baccini ci eravamo lasciati quasi sei anni fa, quando alla Regione raccontò del ‘Ponte di Brooklyn dei poveri’, come chiamava suo padre il viadotto Polcevera, appena crollato. L’occasione ora è ‘Archi e frecce’, album e tour acustici che approdano sabato 27 aprile al Sociale di Bellinzona. Se gli ‘Archi’ sono quelli dell’Alter Echo String Quartet (Marta Taddei e Noemi Kamaras, 1° e 2° violino; Roberta Ardito, viola; Rachele Rebaudengo, violoncello; con Michele Cusato, chitarra e basso), le ‘frecce’ sono, senza polemica, canzoni ridotte all’osso, portatrici di piccoli piaceri acustici e fisici.

A inizio carriera ti volevano triste. “Uno di Genova non può far ridere”, dicevano…

I cantautori genovesi non sono certo degli allegroni, pensa a Tenco, Bindi, Paoli. Lauzi era un po’ più ironico. Mi volevano trasformare in una specie di Johnny Dorelli, togliendomi il pianoforte davanti. Sono i colpi di genio della discografia, dove c’è gente che prende lo stipendio per dire baggianate (edulcorando, ndr). Il problema parte da lontano, Frank Zappa lo aveva già affrontato a fine anni 70. All’inizio ti vogliono cambiare, per trasformarti in un prodotto che nemmeno sanno se funzionerà. Alla fine, quando si parla di arte e di soldi, così come nello sport quando ne girano troppi, finisce sempre a botte.

Sarai anche un apolide, o un salmone, ma la formazione di questo disco è tutta genovese…

Sì ed è strano, perché non ho mai fatto disco con musicisti genovesi. Forse solo in ‘Baccini canta Tenco’, con Armando Corsi (storico chitarrista di Ivano Fossati, ndr). E nemmeno gli Alter Echo sono tutti genovesi. Poco importa, ‘Archi e Frecce’ forse è una delle cose più belle che ho fatto. L’ho fatta per me, fregandomene delle classifiche.

In epoca di elettronica dominante, nel disco non c’è una sola macchina. È un’altra tua provocazione?

È una scelta. Non dico nulla sull’elettronica per una questione di gusti personali, e anche perché nell’elettronica ci sono cose molto interessanti. Ma o sei padrone tu della macchina, oppure viene fuori un disastro. Ormai siamo démodé: chi sa suonare è fuori.

Viviamo giorni di censura, o almeno di testi scomodi. Oggi un album come ‘Nomi e cognomi’ te lo avrebbero mai pubblicato?

Mai. ‘Nomi e cognomi’ fu un errore temporale. Mi infilai nel vuoto precedente a Tangentopoli, che quel disco anticipò dandomi grandi problemi: non andai in Rai per anni, dissero che Baccini era pericoloso, il mio rapporto con i network radiofonici divenne difficile. ‘Nomi e cognomi’ nemmeno c’è sulle piattaforme digitali. Ritirare un disco da 700mila copie credo sia puro autolesionismo.

Lo rifaresti?

Sì. Solo una cosa non rifarei: avessi la macchina del tempo, tornerei al giorno in cui me ne sono andato di casa e sceglierei Londra o New York. Però a quel tempo in Italia ancora c’era una possibilità di farcela.

Prima di arrivare a Tenco, ti chiedo un ricordo degli artisti coi quali hai stretto amicizie e collaborazioni. Cominciando da Fabrizio De André.

Lo ascoltavo a sedici anni. I miei cugini mi portarono alcuni dischi e capii che nelle canzoni ci sono dei testi, e i testi ti restano dentro perché ci cresci, ti segnano la vita, che ti fanno pensare e diventare grande. Ecco perché oggi, con la roba che si ascolta, è un dramma per questi ragazzi crescere.

Lucio Dalla.

Ai tempi del liceo andai a vedere un suo concerto; era il Dalla di ‘Nuvolari’, eravamo in cento in un auditorium. Lo trovai ironico, divenne uno dei miei preferiti e poi ebbi la fortuna di iniziare dal vivo proprio con lui: una sera Lucio mi sentì e mi invitò a un Dalla-Morandi, due giorni dopo. Da lì entrai nella sua agenzia, che aveva sotto contratto tutti bolognesi tranne me.

Enzo Jannacci, per il quale hai scritto ‘Canzone in allegria’...

Anche lui faceva parte della mia adolescenza. In Italia è stato sempre ‘quello strano’, che faceva ridere; gli italiani non ci hanno mai preso, perché l’ironia è sempre vista come qualcosa di serie B. Jannacci era più poeta di De André, di De Gregori. Uno come lui, capace di affrontare qualsiasi argomento, era un genio. Conoscendolo, ne ho avuto conferma.

Ci sarebbe anche Povia, insieme a te nel 2008 a protestare contro Sanremo in nome della ‘tornacontocrazia’, anche se poi lui venne chiamato a Sanremo e smise di protestare…

Quelli come me senza tessera politica, che non stanno né di qua né di là, rompono le scatole. Lo spirito libero, l’artista, deve farlo. Fabrizio diceva: “L’artista è un anticorpo che il popolo ha nei confronti del potere: nel momento in cui l’anticorpo viene a mancare, lo prendiamo in quel posto”. Conosci un artista ‘contro’? Sono ‘contro’ solo nel salotto di casa loro.

Sergio Caputo.

Bella collaborazione. Abbiamo suonato assieme dal 2016 fino all’estate scorsa. Sergio è l’amore per lo swing, è l’ironia. I suoi primi album li so a memoria.

E arriviamo a Tenco, da te tributato sul disco e dal vivo, del quale sostieni che “si parla solo della sua morte”…

Una morte come quella di Luigi Tenco spazza via l’intera sua esistenza. Ancora ci si chiede se si sia davvero suicidato o se sia stato ucciso, il suo caso non si è mai chiuso e mai si chiuderà, perché coloro che erano vivi in quegli anni non ci sono più. Tenco è stato colui che ha aperto tutte le strade al cantautorato, che ha scritto canzoni ironiche quando non le scriveva nessuno, canzoni sociali, politiche, d’amore, rivoluzionarie. Era troppo avanti per i suoi anni, e quando sei troppo avanti ti giri e non vedi nessuno.

Per finire. Vuoi parlare delle accuse di sessismo mosse a ‘Le donne di Modena’?

Certo, non sono finite.

Ma dove starebbe il sessismo? In “Fanno da mangiare”?

Sì. Ci ridiamo sopra ma c’è poco da ridere, per noi e per i 18enni che si stanno sorbendo questo schifo di politically correct, incapaci di distinguere tra una frase detta con ironia e una senza. Con questo politically correct non esisterebbero tre quarti delle canzoni scritte nel mondo. La libertà dell’artista è esattamente ciò che rivendicano rapper e trapper, che poi ti danno del maschilista. Viviamo un momento storico devastante, da crollo dell’Impero Romano, il crollo dell’Impero d’Occidente.

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