Un affiatatissimo trio di ottime interpreti calate in una scenografia dal forte impatto cromatico: visto al Teatro di Locarno, il recensore approva
Sotto un curioso titolo, ‘Tre donne alte’, il drammaturgo statunitense Edward Albee (1928-2016) ci propone tutta una serie di riflessioni su temi che sembrerebbero più materia di studio filosofico che non spunti per una pièce teatrale. L’inesorabile scorrere del tempo, innanzitutto, che si porta appresso da un lato il peso dei ricordi – felici o meno che siano – e dall’altro il fragore di sogni infranti (“Era tutto meraviglioso… ma poi c’è la vita vera!”); le difficoltà del rapporto genitori&figli (l’unico attore giovane in scena, Stepan Haban, sembra un fantasma poiché resta immobile e non pronuncia una sola parola), le scappatoie cui fa ricorso chi ha paura di tracciare un bilancio della sua esistenza. Resta latente, nella traduzione di Masolino D’Amico, il tema dell’omosessualità: mentre nel testo originale questo figlio-fantasma è stato respinto dalla madre dopo il suo coming out, la versione del Teatro dell’Elfo e del regista Ferdinando Bruni vista a Locarno sembra piuttosto puntare su un allontanamento tra i due dovuto a “normali” dialettiche familiari, fatte anche di casuali separazioni/riavvicinamenti.
C’è molto della biografia di Albee in questo lavoro, andato in scena per la prima volta nel 1994 in un teatro viennese (!) e che gli valse il suo terzo Premio Pulitzer: subito abbandonato dai suoi veri genitori, scappò da quelli adottivi appena raggiunti i 18 anni. Espulso da due scuole e da un’accademia militare, gay dichiarato in una realtà – gli USA del maccartismo, piuttosto omofoba – riuscì a trovare il suo posto al sole grazie alla drammaturgia e nel 1962 anche un clamoroso successo internazionale: ‘Chi ha paura di Virginia Woolf?’, portata sul grande schermo dall’esordiente Mike Nichols che seppe tenere a bada la vulcanica coppia Liz Taylor-Richard Burton, è ancora oggi commedia plurirappresentata in tutto il mondo. Meno fortunato fu questo ‘Three tall women’, riportato in scena nei teatri italofoni dopo un’assenza di quasi trent’anni: la versione di Luigi Squarzina risale infatti al 1995.
Argomenti impegnativi, dicevamo, che tuttavia Albee riesce a sistemare in un crescendo accattivante e arricchito pure da sagacia e ironia, offerto al pubblico locarnese da un affiatatissimo trio di ottime interpreti come Ida Marinelli (la più anziana, che vediamo su quello che si può immaginare il letto di morte), la sua badante Sara Borsarelli e la giovane Denise Brambillasca. Quest’ultima, avvocata, vorrebbe solo risolvere alcune questioni amministrative (c’è in ballo un’eredità) e si ritroverà viceversa a confrontarsi con l’esperienza e il disincanto delle due anziane. Un’estemporanea educazione sentimentale (“Le donne tradiscono per tanti motivi, gli uomini semplicemente perché sono uomini”) portata avanti con un monologo/flusso di coscienza con toni anche osé e inaspettatamente sexy. Notevole l’impatto cromatico della scenografia di Francesco Frongia, dominata – in una cornucopia di oggetti simbolici – da un grande orologio senza lancette: mica si può fermare il tempo, neh! La costumista Elena Rossi distribuisce veli bianchi alle tre interpreti e un completo altrettanto candido al figlio/fantasma.
“La pièce è un invito a sperare, a guardare con distacco il nodo gordiano della morte, che può essere affrontata con classe ed eleganza” (Vincenzo Sardelli).