Studio Foce, cronaca di una residenza e di un concerto: sul palco Miladinovic, Guglielmetti e Simonin
Lugano, Studio Foce, giovedì 15 febbraio. Fedora Saura, cavalla tre volte vincitrice del palio di Siena, ritirata dalle gare per manifesta superiorità, diede alle luci Amiata (pop musik), la sua puledra. Fedora Saura pubblicò due dischi, ‘Muscoli in musica/Scelte degli uguali’ e ‘La via della Salute’, prima di implodere e di rinascere nel 2023 come Amiata (pop musik). Progetto artistico più che musicale, al suo interno trovano infatti spazio i versi del poeta Marko Miladinovic, il basso del giornalista Filippo Zanoli, le tastiere dello scultore Claudio Büchler, e i due musicisti Marco Guglielmetti e Mattia Simonin, rispettivamente a chitarra e sassofono. Il loro prossimo album, ‘Alti Eldoradi’, uscirà ad aprile per Pulver und Asche Records, ma in questa residenza artistica allo Studio Foce e offerta dalla Divisione eventi e congressi lo hanno rivisto alla luce della rimaneggiata formazione attuale. Approfittato degli spazi per suonare, delle attrezzature per ampliarsi, del tempo per valutare come farlo. Caratteri strabordanti, approfittano per presentare anche l’ultimo libro di Marko, libro massimo di poesia e il disco solista di Marco a nome Infecta, ‘Passerella’.
All’orario previsto per il concerto la sala è tristemente vuota ma il rischio c’era: il freddo, il giovedì sera. In realtà è slittato di trenta minuti l’inizio e al momento opportuno la presenza del pubblico si fa ben sentire. Saluti sul palco con Marko che inizia a presentare concerto, residenza e scaletta. Lo accompagnano Mattia (anche alla tastiera) e Marco, giostrando un primo brano (composto in residenza) che d’acchito ci riporta alle atmosfere di quegli splendidi anni 80, quando progetti come Matia Bazar e CCCP erano così vicini nell’estrema sintesi fra punk e pop. Poi le canzoni del disco, con declamazioni egualmente erratiche e ieratiche, chitarre e tastiere estremamente sintetiche e leggiadre. Una ‘Emanuelson’ nella quale le tre voci si alzano insieme, oppure una ‘Senza Coscienza’ che sembra un brano hardcore svuotato dalla rabbia, retto da uno scheletro che riecheggia delle migliori intuizioni che furono dei Talking Heads.
Prendendosi un momento per guardare il pubblico, invece degli Amiata (pop musik) si scorgono persone intrigate, che accennano talvolta moti o dosi seguendo l’indolenza di un sassofono che fa le fusa su ‘Non si gode’. Certa musica in bassa battuta sembra aver ricoperto una certa importanza nella costruzione di ‘Alti Eldoradi’, ma solo se la pensiamo come una fuga di vento che, partita dal corno d’Africa, si innalza verso l’Afghanistan. Spesso i beat sembrano essere quelli del cuore della vita stessa, sui quali Marko naviga come Maestro in quel capolavoro di animazione che era ‘Siamo Fatti Così’. “… La vita è una festa impercettibile / mi sono devastata…”, cantano i tre, su uno scheletro ritmico esangue, in ‘Una gallina’. ‘Urca Burckhardt’ sembra un ricordo d’infanzia al contrario, un lungo flashforward che vede protagonista la tastiera di Mattia e la fine dei compagni. ‘Ora che sei morto’ si apre puntuta tra picchi reggae e sintesi ritmica. Poi la poesia più breve del mondo, a battere ‘Infinito’ di Ungaretti, e un brano da ‘Infecta’, più melanconico ma nell’orbita comune e cardiaca di pulsazioni ritmiche. Poi ancora debolezza e forza, con una chitarra sognante e un tappeto che ci apre al cosmo, in ‘Forte Debole’. L’ultimo brano della scaletta è ‘Federico’, cronaca di guerra, ricordo e addio, senza quartiere a Roma, io svizzero via.
Amiata è una scatola che contiene molto più di quel che siamo riusciti a trattenere, una scatola da conservare, aprire e ammirare giocandoci. Un progetto insieme pop, colto, ballabile, storto, attuale e rétro, naturale e perfettamente studiato, senza che nessuna di queste virtù si annullino l’un l’altra. Tentando l’uscita vengono richiamati a gran voce per il bis, ma è solo un pezzo e via. Cavalla in residenza, Amiata nitrisce, il sangue pulsa. Ci risentiremo ad aprile, disco in mano.