A ottantasette anni, Ken Loach firma un altro capolavoro raccontando una storia profonda nella sua verità anche politica (nelle sale dal 1° febbraio)
Due dei principali obiettivi dai quali un’artista trova la forza e il coraggio per esporre la propria visione del mondo sono la volontà di trascendere il tempo e il tentativo, di cui resta discussa l’effettiva esistenza, di andare oltre l’arte stessa, in quel punto morto dove ci si sente riempiti e svuotati allo stesso tempo, quella sorta di nirvana dell’arte, o forse della vita, in cui anche il pensiero si annulla e prevale la semplice e pura gioia di esistere. Siamo individui di una specie connessa, non nel senso di globalizzazione; connessa da molte cose invisibili, non spiegate, che inesorabilmente ci uniscono, quindi quando l’odio scaturisce è perché, semplicemente, nessuna tra queste possibilità di riconoscere un legame viene minimamente percepita. Tra loro e tra le più forti emozioni che si possano provare c’è il dolore, che nessuno è esente dal provare e che genera varie forme di empatia, basate sulla pietà, talvolta, ma più facilmente sul riconoscimento dell’altro come eguale e sulla conseguente immedesimazione. Tutto ciò si traduce in una forma di contatto pura, un dialogo tra due interlocutori che si capiscono senza parlarsi, uno sguardo che davvero nasconde mille parole. Questo è ‘The Old Oak’, l’ennesimo capolavoro di Ken Loach, che ancora riesce a deliziarci, più che mai, con i suoi insegnamenti, perché di un film non si tratta, bensì di una stimolante conversazione al bar da cui tornare a casa soddisfatti, con la voglia di prendere le redini della vita e del mondo, per cambiarlo in meglio.
TJ è il taciturno barista del tipico sgangherato pub britannico ‘The Old Oak’, luogo d’incontro in cui bersi una pinta di birra e lamentarsi in santa pace. La quiete viene scossa dall’arrivo di profughi siriani in fuga dal regime di Assad, malvisti dagli autoctoni del noto quartiere di Newcastle e subito ostracizzati. Nascono e si sviluppano una serie di tensioni, “prima noi poi loro” e “torna al tuo paese” diventano frasi ricorrenti e TJ, mite e gentile per natura, anche se inizialmente titubante, decide di impegnarsi sempre di più per aiutare la comunità neoarrivata, così come i poveri locali inglesi. L’amicizia con la giovane Yara, fotografa di talento, diventa un punto di partenza per costruire un ponte tra le diverse culture e TJ, uomo sopraffatto da rimpianti e traumi, comincia una pacifica ma furiosa lotta per la loro integrazione.
‘The Old Oak’ è un’occasione per ricordarsi chi siamo e chi sono gli altri, un monumento alla speranza e, forse per noi occidentali più di tutti, quasi un obbligo morale, per guardare in faccia un nostro archetipo, da cui erompe la nostra ipocrisia. È sempre triste e imbarazzante notare quanto il razzismo, più o meno latente, emerga dal contatto con i profughi, o anche solo stranieri, in una società con un grado di alfabetizzazione e istruzione che non permette più lo scaricamento di barile sui soli ignoranti; è una parte intrinseca di noi, con un’origine primordiale, ma che però decenni di storia e pensiero moderno ci hanno insegnato a ostracizzare, in favore del rispetto e dell’amore reciproco.
Il film è un riflesso di frammenti di vita realistici, poco notati, intimi e privati ma che, come spettatori, non sentiamo di invadere. Grazie alla maestria di Loach, nella sua regia fluida e impercettibile, che traduce la scrittura perfetta, ai limiti del disarmante, di Paul Laverty, che si conferma tra i più grandi sceneggiatori della storia del cinema, ‘The Old Oak’ racconta una storia indimenticabile: come una vecchia quercia, un sostegno vigoroso che dà speranza, senza colpi di scena enfatizzati, colonne sonore epiche o vezzi estetici di alcun tipo, ma con franchezza e onestà, mettendoci anima e corpo, gioie e sofferenze comprese.