Dopo Cannes, mezza certezza in più: ‘Sì, ‘The Old Oak’ dovrebbe essere l'ultimo film’, a chiudere quella che ci piace chiamare ‘Trilogia della dignità’
Due ore e due minuti con la faccia buona di Dave Turner a guidarci nel terzo episodio di quella che noi da ieri chiamiamo ‘Trilogia della dignità’. Questo è per noi ‘The Old Oak’, così come – sempre per noi – è trilogia quella che unisce ‘I, Daniel Blake’, ‘Sorry We Missed You’ e quest’ultimo affondo sulle cose di questo mondo. ‘Trilogia della dignità’ è espressione gradita a Ken Loach, incontrato prima della proiezione in Piazza Grande con al suo fianco Paul Laverty, lo sceneggiatore dei suoi ultimi tre film e di molti dei precedenti.
«C’è della verità in questa definizione – commenta il regista – perché la gente combatte per la vita, la sicurezza e la dignità che sono state loro rubate, tanto in ‘I, Daniel Blake’ che nella gig economy che rende insicura la vita di Kris in ‘Sorry We Missed You’, e nell’abuso, nell’abbandono, nei traumi della guerra che affliggono i siriani di quest’ultimo film. In tutti questi casi, il motivo viene dalle società basate sul profitto, in cui la libertà del mercato viene fatta corrispondere alla libertà personale, e la libertà del lucrare a tutti i costi sposa la libertà dell’essere affamati. Sono sintomi di un complessivo, disastroso conflitto economico». C’è dignità in Yara, che pretende che la sua macchina fotografica le sia ripagata da chi l’ha danneggiata, c’è dignità nel modo di TJ di nascondere un segreto, e di aprire all’altra, all’altro, agli altri. E tanta altra ne arriverà alla fine, magra consolazione che poi così magra non è.
“Non poteva essere un lieto fine”, disse Loach a Locarno69 a proposito di ‘I, Daniel Blake’. Era il 2016, l’anno del Premio del Pubblico. In una forma particolare, ‘The Old Oak’ – se davvero questo sarà il suo ultimo film come si dice sin dall’ultimo Cannes (lo scriviamo alla fine) – porta almeno un grammo, un’oncia d’inedito ottimismo. Assai relativo per Laverty, che con accento scozzese smorza i toni: «Tutto quello di cui abbiamo parlato nel film, così come quello di cui stiamo parlando, è sempre il materializzarsi di un passo avanti e due indietro, soprattutto nel Regno Unito, nazione che ha come ministro dell’immigrazione del governo britannico Robert Jenrick». Che rappresenta i due passi indietro. Mentre il passo avanti sono «i sindacati, i momenti di aggregazione spontanea, le organizzazioni studentesche che in modo brillante alimentano l’amicizia, l’integrazione». Il risultato? Persone che hanno speranza e altre che l’hanno persa, ed è questa contrapposizione che abbiamo voluto catturare e riportare nel film, mostrando l’impulso di generosità che porta una comunità a vedere Yara come una persona e non come una musulmana, o qualcuno che semplicemente arriva da fuori. La generosità c’è, è assurdo negare che non ci sia, ed è la cosa che ci fa credere che la direzione sia questa».
A chi se non a Loach, così esperto di scioperanti da essere censurato in Patria (erano i favolosi anni Ottanta di Margaret Thatcher), si può chiedere un parere sugli scioperanti di Hollywood, per quanto l’industria hollywoodiana non sia mai stato il suo primo pensiero al risveglio: «È, non di meno, una lotta industriale, tra quella dei film e le imprese capitaliste. Cercano di fregare le persone che lavorano per loro, come fanno tutte le industrie». Loach supporta l’azione di chi sciopera, ma crede anche che «la domanda sottesa all’agire delle industrie dello spettacolo porti con sé oltre la questione economica anche quella di come cambiare i soggetti, il contenuto di quanto viene scritto dagli autori, che è anch’esso deciso da qualcun altro. E in campo autoriale, qualcuno si vende per tanti soldi, cosa che non dovrebbe essere lo scopo di chi fa quel mestiere. Ma questo è un lungo discorso e bisogna portare massimo rispetto per tutti coloro che scendono in strada».
Tra le scene più belle, di quelle che arrivano quando tutto sembra perso, ‘The Old Oak’ regala un monologo sulla bellezza che è allo stesso tempo l’incontro tra credo diversi in un unico luogo, rilassatamente neutro. Laverty: «In chiesa, gli occhi di Yara che contengono la distruzione della sua nazione incontrano l’architettura del posto e la musica; TJ non fa altro che accogliere le sue parole, perché in quel momento può solo ascoltare. Credo si tratti di un istante di reciproca fiducia». Loach: «Penso che, se proprio lo si vuole cercare, il barlume della speranza risieda proprio lì».
Se non fosse che il film è antecedente all’incontro del regista con Papa Francesco (avvenuto giusto un mese fa, quando Loach definì il pontefice “un autentico uomo di sinistra”), il momento mistico parrebbe partorito dall’improvviso ricredersi di un agnostico tendente all’ateo: «Non è il frutto di una conversione (ride, ndr). È stato un bell’incontro, sono rimasto positivamente colpito dalla persona». Sull’indotto e sul contorno, già si sa.
Dovevamo scrivere una cosa alla fine, ed è questa. “Un giorno alla volta. D’altra parte, se ti alzi la mattina e il tuo nome non è nei necrologi… un giorno alla volta”, diceva Loach a Cannes in maggio, commentando il declino. “La memoria a breve termine se ne va, e la mia vista comincia a diventare un po’ confusa”, scriveva deadline.com. A Locarno, le parole sono diventate queste: «Sì, dovrebbe essere il mio ultimo film. Probabilmente mi confronterò con qualcosa di più piccolo. Ma gli spunti per le storie rimangono tanti».
LFF
Con lo storico sceneggiatore Paul Laverty