L'album senza tempo di un artista incurante di mode e tendenze, che incontra il pubblico sabato 3 giugno da Musicdoor a Lugano
«Il segreto di tutto è semplicemente fare sé stessi, una cosa che sembra banalissima ma che oggi, ahimè, pochi fanno. Se tu fai te stesso, facendo attenzione a non fare del male agli altri, non sbagli mai». La sua inattaccabilità, artisticamente parlando, Garbo la spiega così. Oltre quarant’anni di carriera aperti nel 1981 da ‘A Berlino… va bene’, album ispirato alla trilogia berlinese di Bowie, il cantautore con il quale si è soliti identificare la new wave italiana ha dato alle stampe ‘Nel vuoto’, otto tracce oggetto d’incontro e firmacopie domani dalle 18.30 da Musicdoor a Lugano, in collaborazione con Tondo Music. ‘Nel vuoto’ suona – e non è una novità – senza tempo, ma un tempo preciso ce l’ha: il nostro.
“Stiamo galleggiando in un vuoto culturale e sociale enorme. Questo provoca una solitudine intellettuale e fisica tangibile, toccabile con mano e nella mente nel quotidiano”, scrive l’artista nelle note di presentazione di un album il cui obiettivo è anche il raggiungimento di una dimensione in cui “non esistono mode, etichette e generi”.
Parte la traccia 1, ‘Come pietre’, e di nuovo – parafrasando il poeta – non è chiaro ‘che giorno è’. Dove sta il segreto dell’essere senza tempo? Nella voce?
No, la voce non c’entra. Credo sia la sintesi di mezzo secolo di bagaglio maturato in tanti anni. Faccio musica attiva da mezzo secolo, ho iniziato a metà degli anni ’70 per diventare pubblicamente ‘agibile’ dall’81 in poi. Non è solo la voce, non è solo il modo di comporre, non è solo la spazialità del mio movimento musicale, che può abbracciare la song o citare la musica contemporanea; credo sia la somma di tutte queste cose. Naturalmente, è qualcosa che fa sì che io possa vincere una sfida con me stesso e non con gli altri, perché c’è chi di fronte a un lavoro di questo tipo può non comprendere assolutamente, o annoiarsi. Se poi qualcuno comprende, allora sono molto felice, perché è un segnale di raggiungibilità per chi ascolta.
“E le parole erano pietre, oggi vapore”, si canta in ‘Come pietre’, istantanea dei tempi moderni…
Senza scendere in argomentazioni di natura socio-politica, si tratta di una questione esistenziale. Oggi il peso dei concetti è assolutamente variabile e vulnerabile; possono essere espresse cose apparentemente assai profonde ed essere scambiate per un fake. Viceversa, ciò che evapora può essere preso come riferimento. In ogni caso, evapora tutto ed è alla base della solitudine intellettuale e del vuoto culturale che stiamo vivendo.
‘Come pietre’ porta con sé un videoclip interamente affidato all’intelligenza artificiale. Per il tema del momento, la domanda del momento: quanto ti spaventa, se ti spaventa? O non ti spaventa affatto, l’intelligenza artificiale?
Non ho paura e non la temo. È uno strumento, un mezzo, è un veicolo che mi porta dal punto A al punto B in modo più veloce e interessante, aggiuntivo. Il tema mi ricorda tanto una disquisizione di tanti anni fa, quando incominciammo a occuparci di musica elettronica: “Ma non hai paura che l’arte venga meno?”. Il problema, quello vero, quello atavico, non è l’intelligenza artificiale bensì il non farsi dominare dalle macchine, perché la creatività umana rimane, nel bene e nel male, il momento più alto. Qualsiasi strumento, se usato male, è mortale. Anche l’automobile: se attraversi Chiasso a 280 all’ora puoi morire tu e possono pure morire altri. La macchina è dannosa? No, la macchina è utile, interessante, meglio ancora se elettrica, e si può viaggiare con intelligenza. Non artificiale.
“Fa troppo caldo per essere in un’era fredda, c’è troppa luce per essere in un tempo buio”, si canta invece in ‘Il mondo esplode’, altra nitida fotografia dei tempi incerti che viviamo…
È uno di quei viaggi nel passato per proiettarmi altrove dopo, è una citazione che stilisticamente arriva dalle mie origini, un brano post-punk dal punto di vista anche strutturale. È il post-punk che mi ha formato, alla Iggy Pop, alla Velvet Underground per intenderci, quello che ancora oggi molti gruppi nuovi della scena internazionale riproducono. Perché la musica, alla fine, è una.
Sono trascorsi sette anni dall’ultimo album d’inediti di Garbo, non che i precedenti fossero meno dilatati nel tempo. Nel non convenzionale che ti rappresenta, ‘Nel vuoto’ non è stato composto durante il lockdown, come si apprende spesso a ogni nuova uscita discografica recente...
Infatti. Contrariamente a molti miei colleghi, ho usato quel periodo per riflettere, per far sedimentare idee e ipotesi che hanno trovato un flusso soltanto più tardi. Sì, sono passati sette anni, perché io credo che si debba rendere pubblica una propria opera quando si ha realmente qualcosa da dire. Un disco nuovo non è prescritto dal medico di nessun artista al mondo, lo posso garantire. È chiaro che il pensiero possa andare al business, ma a fronte di cosa, nel mare di cose pubblicate? Io preferisco dare di me nel momento della necessità, perché fare musica per un artista è un bisogno, e un bisogno ha i suoi tempi, i suoi momenti.
Ho ascoltato interviste di artisti che dicono di scrivere ogni mattina, in un proprio ufficio, nella propria situazione puntuale, e credo che siano baggianate: comporre musica non è un lavoro da impiegato, scrivere è qualcosa di straordinariamente casuale, legato all’esperienza, alla vita, al corso delle cose.
La curvatura spazio-temporale di ‘Nel vuoto’ include anche i collaboratori di una vita, sorta di viaggiatori del tempo: scelti ad hoc?
Luca Urbani, Eugene, con il quale suono dal vivo, e i Drieu, band di cui fa parte il mio manager, che è anche musicista, sono collaborazioni sviluppatesi negli ultimi 15-20 anni, dunque naturali in questo lavoro. Roberto Colombo, invece, l’ho cercato, proprio per dare conferma e originalità di firma ai riferimenti al passato; Roberto, spontaneamente, si è entusiasmato e ha collaborato come gli altri a un singolo brano, applicando la sua firma, il suo mood (la title-track, ndr). Con lui ho tanti ricordi legati a ‘Radioclima’, a ‘Quanti anni hai’. Abbiamo rievocato questo nostro rapporto in modo nuovo, più consapevole e con grande piacere.
In tutto questo vuoto c’è almeno una speranza, e sta proprio in ‘Nel vuoto’, traccia dall’incipit sinfonico dalla quale l’album prende il titolo: ‘Rivedremo la luce e poi saremo lontani’...
Si dice che ogni uomo di scienza sappia che esiste sempre una possibilità. Il senso di questa speranza è che tale vuoto è colmabile, così come colmabili sono tutti i vuoti. Si tratta, chiaramente, di una sfida che l’uomo deve affrontare. Ormai, la sensazione di vuoto è tangibile da parte di tutti, non solo dagli intellettuali, e non serve dire che dopo la pandemia siamo tornati alle grandi riunioni, che la gente esce e s’incontra di nuovo. Non è vero, questa è solo una forma: il disagio sociale, in realtà, è più forte di quanto possiamo pensare.