Di là dai sostegni tagliati per raggiunti limiti d’età, con Cristina Castrillo ripercorriamo il passato del Teatro delle Radici, che è anche la sua storia
Più di quarant’anni fa, un seme ha trovato in Ticino terra fertile e, integrandosi, ha germogliato radici da cui è spuntato un virgulto, diventato poi un albero. Quelle radici danno sostegno e nutrimento a una pianta che, anno dopo anno, cresce diramandosi e originando propaggini. Ancora oggi. Il seme della metafora botanica trova in Cristina Castrillo, fondatrice nel 1980 del Teatro delle Radici (TdR), la personificazione.
L’occasione di incontrare l’attrice, pedagoga, autrice e regista, in un caldo pomeriggio di primavera che sa di estate, è data dalla notizia, pubblicata all’incirca una settimana fa, del taglio progressivo dei sostegni pubblici all’attività del teatro (che dal 2025 non ne beneficerà più) deciso dalla Commissione culturale cantonale alla fine dell’anno scorso (sulle modalità generali di gestione dei fondi destinati alla cultura è in ballo un’interrogazione al Governo cantonale). Un taglio che di fatto ne mina la sopravvivenza. La disposizione è basata su un criterio anagrafico, giustificato dalla volontà di privilegiare i progetti non gestiti da persone in età pensionabile.
Un provvedimento vissuto da chi lo sta subendo come una «discriminazione» che non tiene per nulla in conto la storia e la produzione di una realtà culturale indipendente che da oltre quarant’anni contribuisce alla ricerca teatrale cantonale (e alla sua tradizione), portando avanti un approccio peculiare che ha nell’attenzione per l’attore il nocciolo dell’intero processo creativo.
Dal 1986, l’edificio in Viale Cassarate 4 non è “solo” una sala teatrale, ma è soprattutto «una casa; in cui convivono rigore, rispetto e lealtà». I suoi muri raccontano una storia di cultura profondamente legata all’umano e all’incontro. Prescindendo da decisioni istituzionali, ricorsi e risposte; andando al di là del sostegno e della solidarietà ricevuti dal TdR da parte di colleghi e spettatori che da anni seguono la sua programmazione, con Cristina torno alle radici, perché passato e presente del teatro sono parte del suo percorso. Ma premette: «A volte preferisco non addentrarmi nella nostra storia, perché è difficile spiegare cosa è quella sala, cosa rappresenta».
Torniamo indietro. «Faccio teatro da quando ho 17 anni». Natia di Córdoba, in Argentina, negli anni Settanta Cristina, con altri compagni cacciati dall’università, ha fondato Libre Teatro Libre, una delle più conosciute compagnie di teatro latinoamericane. A quel tempo, era il 1976, il Paese era vessato dalla dittatura militare del generale Videla, contraddistinta da una brutale repressione. Un contesto drammatico da cui «mi sono salvata per un pelo. Dall’ultima dittatura militare al 1980 sono stati per me gli anni duri dell’esilio, riparando dapprima in Colombia e Venezuela. Avevo però bisogno di allontanarmi dalla dolorosa situazione dell’America Latina», ed è così partita alla volta dell’Europa, arrivando a Madrid. Con sé portava il suo primo spettacolo individuale «che ho rappresentato in alcuni teatri, arrivando a Milano, alla Comuna Baires». Dopo una di quelle rappresentazioni, Vania Luraschi (fondatrice del Teatro Pan, spentasi nel 2019) «mi ha chiesto di portare a Trevano la pièce, che ha avuto un successo strepitoso. Ma il punto non era il successo: quando sono arrivata qui ho avuto la sensazione, per un attimo, di essere serena». Provando dopo molto tempo serenità, Castrillo ha chiesto a Vania se potesse trovarle «una stanza, che non potevo pagare, per un mese, affinché potessi capire che cosa volessi fare. In quella stanza ci sono rimasta tre anni». Procedendo spedite, a Lugano diverse persone che l’avevano vista sulla scena le hanno chiesto se tenesse laboratori teatrali. Alle spalle aveva i quattro anni di esilio che sono stati per lei fondamentali: «In solitaria, ho iniziato ad approfondire tutto ciò che in seguito è diventata la base metodologica del mio lavoro con gli attori». Si è quindi detta che era arrivato il momento di capire se fosse stata capace «di trasmettere ad altri ciò che lei aveva vissuto nel suo percorso creativo personale. Era il 1980 e lì è iniziata».
In quattro decenni, Cristina ha elaborato un metodo che ha nell’incontro e nell’etica i suoi nodi nevralgici, una maniera trasmessa a tanti artisti che hanno intrapreso i cicli formativi di due o tre anni oppure che hanno fatto l’esperienza del Laboratorio internazionale, giunto quest’anno alla 34esima edizione. Un’esperienza quest’ultima che ha permesso anche di intessere legami a livello internazionale «creando una rete comunicativa che non è solo professionale». L’elenco dei nomi di artisti formatisi fra le pareti delle Radici è lungo, ne citiamo pochissimi e in ordine sparso: Bruna Gusberti, Carlo Verre, Irene Zucchinelli, Cinzia Morandi, Luca Spadaro, Emanuela Bernasconi, Camilla Parini, Ledwina Costantini, Daniele Bernardi, Margherita Coldesina, Cristina Galbiati.
Gli spettacoli del TdR riflettono sugli aspetti dell’animo umano, sul suo sentire, sulla memoria. «La nostra storia creativa è anche una storia umana che evolve. Non ce ne è una, fra le nostre pièce, che non abbia pezzi di chi le interpreta. Il territorio dell’arte, per me, se non è legato a quel sentimento di umanità, alla sensibilità comune, non ha senso». Partendo dai primi anni Ottanta, in più di quarant’anni, gli spettacoli creati e diretti da Castrillo sono oltre trenta: si parte da ‘Tracciato a matita’ arrivando fino al recente ‘Fessure’, ricordando allora ‘Trottole’ (1983), ‘Sul cuore della terra’ (1988), ‘L’attimo del blu’ (1992), ‘Canto di pietra’ (1994), ‘Pelle di lupo’ (1997), ‘Umbral’ (1999), ‘Il ventre della balena’ (2004), ‘Il valzer delle panchine’ (2009), ‘Amori’ (2013), ‘Petali’ (2015), ‘Transumanze’ (2017), ‘Graffio sul bianco’ (2019); per farne un elenco minimo. Anno dopo anno, la mia interlocutrice ha anche portato rappresentazioni e laboratori, letteralmente, ai quattro angoli del mondo ed è autrice di articoli e di pubblicazioni come ‘Attore-Autore’ (1990), ‘I sentieri dell’acqua’ (2000), ‘Trilogia dell’assenza’ (2005).
Nel 2014, va ricordato, l’Ufficio federale della cultura le ha assegnato il Premio svizzero per il teatro, un riconoscimento conferito a istituzioni e/o persone che con il proprio lavoro contribuiscono notevolmente allo sviluppo e alla crescita dell’arte teatrale nel nostro Paese, e Castrillo, come recitano le motivazioni al premio, ha portato “un prezioso contributo allo sviluppo teatrale dall’orientamento etico”.
Quella del Teatro delle Radici è una vicenda lunga e multiforme che sta assai stretta in queste colonne; una storia fatta di impegno e passione corale, scritta da persone, che ieri e oggi, lo hanno nutrito e continuano a farlo. La decisione «burocratica» della Commissione culturale cantonale, è innegabile, rischia di creare ripercussioni e mettere a repentaglio il futuro non “solo” della sala e di tutti coloro che ne sono parte, ma anche – andando su un piano generale – l’avvenire della pluralità del linguaggio teatrale. «Anche se non si risolve, di tutta questa faccenda, a me interessa che smuova qualcosa», chiosa.