La recensione

Quante tresche nella Boston dell'Ottocento!

A proposito di ‘Boston Marriage’ di David Mamet, visto al Lac, con tre applauditissime protagoniste

Massachusetts, fine Ottocento
(Giorgio Sangati)
26 aprile 2023
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Figlio di una famiglia russa di origine ebrea, David Mamet in due occasioni è stato candidato agli Oscar per le sceneggiature di ‘Glengarry Glen Ross’ e ‘Sesso&potere’. Mancata la magica statuetta, si è rifatto con i Leoni d’Oro veneziani andati al suo magnifico ‘Le cose cambiano’ e all’indimenticabile Don Ameche, attore nato nelle Marche come Felice Amici e che poi scelse uno pseudonimo che, pronunciato all’inglese, riecheggiasse il cognome di famiglia. La fortuna di Mamet, tuttavia, si deve soprattutto al teatro: autore fecondo quanto brillante, ha al suo attivo una quarantina di lavori (tra cui il Premio Pulitzer ‘Glengarry Glen Ross’), alcuni dei quali poi portati sulla scena da star quali Al Pacino, Sir Jonathan Prince e Joe Mantegna.

Un suo testo del 1999, ‘Boston Marriage’, ambientato nel Massachusetts di fine Ottocento, è andato in scena ieri al Lac, e così farà questa sera, 26 aprile, con la sempre pregnante traduzione di Masolino D’Amico. Su una scena raffinata, accogliente e calda ideata da Alberto Nonnato (“Un salotto tutto velluti dove dominano il rosso pompeiano e il rosa cipria”) due signore sembrano essersi date appuntamento solamente per il classico tè delle cinque: del resto sono state amanti e dunque niente di strano. In realtà si ritrovano perché la meno attempata delle due (Claire) ha trovato un nuovo amore, che necessita però di un nido dove incontrarsi e soprattutto consumare. Sì, perché le due signore, che ben conoscono gli uomini (“Sono stati creati solo per essere ingannati, li inonderemo di illusioni”), dopo la rottura del loro rapporto sono rimaste amiche ancora intime. “Ma è sposato?” chiede Anna all’amica, pronta a rispondere “Certo, sennò a che cosa gli servirebbe un’amante?!?”. Si perdono volentieri nei loro ampollosi dialoghi, spettegolando su un fedifrago colto sul fatto e che da allora “bruca nel girone degli ex virtuosi”. Poi tornano alla loro attualità chiedendosi: “C’è una guerra di Crimea? Ma dove diavolo sta la Crimea?”. Si ricordano a vicenda che “se devi dire una bugia, dilla talmente grossa e non apparirà più tale”. Vengono più volte interrotte da Catherine, la donna di servizio bardata come uno Charlot e filiforme come gli uomini svolazzanti di Magritte. Vittima delle continue invettive della padrona di casa (“Voi irlandesi ancora piangete per la carestia di patate che vi ha fatto fuggire fino negli Usa per non morire di fame, ma la colpa è vostra: non avete badato all’azoto indispensabile per nutrire la terra!”), la colf – che sembra davvero a pieno servizio muovendosi come un burattino meccanico e obbediente – si dimostrerà meno sprovveduta di quanto appaia, capace infine di prorompere in un clamoroso, poco elegante quanto efficace “Ma che cazzo volete da me?” . Tra un’interruzione e l’altra, le due amiche tornano a cianciare e filosofeggiare (“Il fato? Non è che il nostro carattere pietrificato”). Nella Boston puritana dell’epoca danno vita insomma a uno scherzo che – come sottolinea il regista Giorgio Sangati – “mira a creare un raffinatissimo scandalo”.

Tre le applauditissime protagoniste: Maria Paiato (già Premio Ubu quale miglior interprete), Mariangela Granelli (ormai di casa al Lac: ‘Il gabbiano’, ‘Lo zoo di vetro’) e Ludovica D’Auria, una colf che tutti vorremmo avere in casa per la sua verve e il suo umorismo sardonico.