Nato a Milano con profonde radici sicule, l’80enne Lavia è il Ciampa sornione del ‘Berretto a sonagli’ visto al Lac (tra alcuni ‘ooh’ di meraviglia)
La prima edizione apparve nel 1916 e s’intitolava ‘A birritta cu’ i ciancianeddi’, era in siciliano poiché pensata per Angelo Musco, attore catanese che all’epoca spopolava grazie alla sua sagace vis comica cui affiancava il talento necessario per dar vita a personaggi tormentati quanto convincenti sotto il profilo psicologico. In effetti, nel ‘Berretto a sonagli’ (questo il titolo in italiano) ci sono sia tormenti esistenziali e angosce profonde, sia momenti di vera farsa che sfociano talvolta nella pura comicità.
L’ormai 80enne Gabriele Lavia – nato a Milano ma di profonde radici sicule – sorprende col tentativo di unire le due lingue: ormai sdoganati grazie a Camilleri molti termini in uso nell’immaginaria Vigata e nella vera Palermo, il pubblico non ha difficoltà nel districarsi tra i due idiomi. Già incuriosito dalla presenza di sei manichini che lo accolgono bardati come ce li ricordiamo nei ritratti degli Impressionisti (personaggi in cerca d’autore?), il pubblico del Lac ha il primo "Oohh" di meraviglia quando vede materializzarsi in veri personaggi in carne e ossa quelle ombre gigantesche sin lì proiettate sul grande telo bianco che non ha solo una mera funzione scenografica, bensì segna simbolicamente il confine tra la realtà e tutto ciò che le sta dietro. Di qua c’è il salotto non più tanto buono di Casa Fiorica (tavoli cui manca una gamba, poltrone sdrucite dove è meglio accomodarsi con molta cautela) e di là, quanto si racconta di tresche amorose, sentimenti violati e omertà strettamente necessarie affinché la ‘facciata’ di tutti rimanga rispettabile. Beatrice, tuttavia, non sta al gioco e vorrebbe denunciare il tradimento del suo maritino, il quale se la fa con la giovane moglie del suo fedele segretario Ciampa. Quest’ultimo è a conoscenza della tresca, però fa finta di nulla: preferisce calcarsi sulla crapa il berretto a sonagli (destinato ai cornuti) anche perché… quale sarebbe l’alternativa? Il classico – stavolta doppio – delitto d’onore che lui non si sogna nemmeno di compiere. Attorno a coniugi e fedifraghi, ecco poi il fratello di Beatrice, un simil gigolò (ben interpretato da Francesco Bonomo, il quale recita leggiadro danzando al ritmo del tango) dedito al gioco e sempre alla ricerca di denaro; l’anziana serva Fiana (garantite empatia e risate a ogni sua apparizione!), tata vecchio stile che consiglia a Beatrice di chiudere entrambi gli occhi all’insegna del "così fan tutti… gli uomini"; il Delegato Spanò (Mario Pietramala, volentieri sopra le righe per introdurre i toni da farsa della seconda parte dello spettacolo) e tra gli altri la Saracena (Matilde Piana), la prima a rifiutare l’ipocrisia dell’omertà e a consigliare a Beatrice di denunciare l’accaduto.
Lui, Gabriele Lavia, è un Ciampa sornione che non perde mai la calma. Pirandello non ha ancora aperto le sue "camere di tortura", dove colpi di scena e agnizioni la fanno da padrone: in questa pièce definita da Sciascia "perfetta", si limita a suggerire la scorciatoia della follia (la moglie di Pirandello fu ricoverata in manicomio per la prima volta proprio nel 1916). E sarà proprio Ciampa/Lavia, con un convincente monologo quasi sussurrato, a proporre la soluzione: Beatrice deve dire la verità, come un fool shakespeariano che grida contro tutti, sicché tutti la crederanno pazza ("Che sono in fondo tre soli mesi in una casa di cura?").
C’è sempre una maschera dietro la quale ci si può nascondere, vuoi come singola donna infelice e tradita, ma anche in centomila.