laR+ La recensione

Osi in Auditorio, dalla Rivoluzione alle Folies Bergères

La posizione seduta dell’eccellente Christian Zacharias ha condizionato qualche sfumatura dinamica, ma sono stati applausi convinti

Christian Zacharias
(©OSI / S. Ponzio)
22 gennaio 2023
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La Suite ‘Pelléas et Mélidande’ di Gabriel Fauré, del 1900, Il Concerto per pianoforte e orchestra K 595 di Wolfgang Amadeus Mozart, del 1791, la Sinfonietta di Francis Poulenc, del 1947: questo il programma eterogeneo scelto Christian Zacharias, solista e direttore del concerto di giovedì con un’Orchestra della Svizzera Italiana in forma smagliante, che schierava ventisette archi sulla base di tre contrabbassi, ben commisurati al piccolo Auditorio di Besso.

Per cominciare un’immersione nel simbolismo francese con Gabriel Fauré che sente il fascino di Pelléas et Mélidande, il dramma di Maurice Maeterlinck apparso nel 1892 e gli dedica la Suite in quattro tempi, che nell’esecuzione di giovedì ha goduto una flagrante concordanza di idee fra Zacharias e l’Orchestra, nell’evocare la realtà misteriosa che lega i due amanti, che ha coinvolto il pubblico preparato, molto meno i ragazzi, davanti a me sulla balconata di destra, che tuttavia, nell’evocazione finale della morte di Mélisande, hanno finalmente spento i telefonini.

Vorrei segnalare la necessità di un annuncio immediatamente prima del concerto col quale si ricorda al pubblico di spegnere i telefonini e lo si avverte che è proibito registrare e filmare il concerto.

Piatto forte del programma, ovviamente il Concerto di Mozart, con il grande pianoforte senza coperchio incastrato tra gli archi. Christian Zacharias, eccellente pianista, concentratissimo non solo nelle impervie cadenze, ha lasciato volentieri gran parte della direzione al Konzertmeister Robert Kovalski, che è rimasto comunque sempre seduto, ed è forse la ragione per la quale l’Orchestra è mancata alquanto nelle sfumature dinamiche. Nonostante ciò una splendida esecuzione, gratificata dagli applausi del pubblico, che hanno convinto Zakarias a concedere un bis: mi si è detto una Sonata di Domenico Scarlatti, che non ho riconosciuto.

Poulenc compone Sinfonietta quando la Seconda guerra mondiale è finita da appena due anni. Potrebbe pensare ai lutti di Parigi e invece sembra pensi piuttosto alle frivolezze delle Folies Bergères. Mentre a Vienna Schoenberg lavora da trent’anni alla musica atonale, lui scrive musica tonale, forse consapevole di quanto la vita sociale e quella musicale di Vienna e Parigi fossero diverse da un secolo e mezzo, almeno da quando Mozart e Beethoven occupavano la scena musicale nella città sul Danubio, e nelle città della Senna imperversava la Rivoluzione, da quando un secolo dopo Freud lavorava alla psicanalisi e Schoenberg alla dodecafonia mentre a Parigi si vivevano le dissolutezze della Belle époque.

Ma a questa storia non pensavano certamente esecutori e ascoltatori del concerto dell’altra sera, accomunati piuttosto dal desiderio di dimenticare la pandemia e concedersi qualche licenza carnevalesca. E la Sinfonietta di Poulenc ne ha offerto l’occasione: Zacharias e l’Orchestra l’hanno trafitta con un sorriso, che a poco a poco si è trasformato in una risata fragorosa e ha trascinato il pubblico in un tripudio finale.