Il fondatore dei New Trolls morto oggi a Roma nel ricordo di Massimo Cotto, al suo fianco nell’autobiografia e in uno spettacolo che ha girato l’Italia
L’auditorium Franco Alfano di Sanremo in piedi ad applaudirlo è l’ultima immagine che il pubblico ha di Vittorio De Scalzi, 72enne fondatore dei New Trolls, punto di riferimento del rock progressivo italiano, della canzone d’autore e, più tardi, del pop ‘per bene’. «Quando allo ‘Spallanzani’ di Roma gli fu prospettata la gravità della sua fibrosi polmonare, il medico gli chiese: "Ha bisogno di uno psicologo?". Lui rispose: "No, ho bisogno di una chitarra"».
Ad applaudire a Sanremo De Scalzi, spentosi a Roma con la complicità del Covid-19, c’era anche Massimo Cotto, giornalista, dj e scrittore italiano. È suo l’aneddoto della chitarra. Un’amicizia ultradecennale con l’artista scomparso, due mani prestate all’autobiografia (contenuta nel cofanetto ‘Una volta suonavo nei New Trolls’) e uno spettacolo intitolato ‘Quella carezza della sera’, dall’omonimo sempreverde scritto da De Scalzi, Cotto ha girato con lui l’Italia per un paio d’anni e poco più, il tempo sufficiente per cementare un’amicizia. «Era una persona semplice – ricorda – e come tutti gli artisti stava bene quando si trovava tra amici. Ma viveva per stare sul palco».
Genovese, classe 1949, padre ristoratore e madre pianista, il polistrumentista Vittorio De Scalzi fonda i Trolls negli anni ’60, debutta come solista facendosi chiamare Napoleone e nel 1967, chiusa la parentesi Trolls, dà vita ai New Trolls, con Nico Di Palo, Gianni Belleno, Giorgio D’Adamo e Mauro Chiarugi. La band apre quell’anno i concerti degli Stones e, l’anno successivo, pubblica il primo album ‘Senza orario e senza bandiera’, composto insieme a Fabrizio De André e al poeta Riccardo Mannerini.
Del 1971 è ‘Concerto Grosso’, nato da un’idea di Luis Bacalov, autore delle musiche, uno di quegli album che critica e musicisti chiamano ‘pietre miliari’, anche se il grande pubblico collega i New Trolls ad altro: «La chiamava, ridendo, ‘Quella carogna della sera’», ricorda Cotto. «Diceva: "Ho scritto centinaia di canzoni per me e per altri, ma quando la gente mi vede chiede sempre ‘Quella carezza della sera’, come se avessi fatto solo quella». Allo stesso modo, «durante una delle diaspore dei New Trolls (presisi e lasciatisi più di una volta, e con strascichi legali sull’utilizzo del nome, ndr), Vittorio fondò una band jazz/fusion e, nonostante la sperimentazione, la gente gli chiedeva ‘Miniera’». Ma niente snobismi: «Era perfettamente a suo agio con tutto il proprio repertorio, tanto con le canzoni di ‘Concerto grosso’ quanto con quelle pop. ‘Miniera’ era la sua preferita e se in un ristorante lo pregavano di suonare, ‘Quella carezza della sera’ non l’ha mai negata a nessuno, perché alla fine, con quel brano, ci aveva fatto pace. Anche per questo la gente gli voleva bene».
Ulteriori estratti di umanità: «Quando me lo disse, pensai che fosse veramente pazzo: Fabrizio De André gli chiese di andare in tour con lui come chitarrista, e Vittorio disse che non si sentiva abbastanza bravo. Colpisce tanta umiltà in un polistrumentista come lui, che non se la sente di suonare con Fabrizio, che chitarristicamente non era esattamente un virtuoso».
Grande raccontatore di barzellette, persona di umanità e generosità («Sfatava il luogo comune del ligure), De Scalzi andò sette volte a Sanremo, sempre con risultati pessimi. Come nel 1996, quando i New Trolls, prodotti da Renato Zero, si unirono a Umberto Bindi in ‘Letti’ per arrivare ultimi, che al Festival a volte è un onore. «Scriveva canzoni inedite in lignua genovese, di cui andava fiero. Altrettanto fiero andava dell’inno della Sampdoria, da lui scritto. Era molto curioso, come gli artisti veri, tendeva a muoversi anche in ambiti a lui sconosciuti fino a poco tempo prima. «Se ne va anche il fondatore di uno dei pochi gruppi che in Italia ha fatto la storia senza fare le cover, contrariamente a Nomadi, Dik Dik, Equipe 84 e tanti altri, e che per primo ha provato a far dialogare la musica classica con il rock in ‘Concerto Grosso’. Quell’esperienza con Bachalov la ricordava sempre, ed era il suo più grande vanto».
Niente di meglio di quell’opera, viene da dire, per lasciare il miglior ricordo di sé: «Non ho mai creduto alla leggenda popolare secondo la quale gli artisti vogliono morire sul palco, nessun artista me l’ha confessato mai», conclude Cotto. «Però, morire dopo un’ultima, grande rappresentazione, con la gente in piedi che ti batte le mani, beh quello ci sta». E ancora: «Ognuno può pensarla come crede, ma credo che Vittorio sentisse che sarebbe stata la sua uscita di scena. In quest’ultimo periodo abbiamo continuato a girare l’Italia per presentare i libri; quando se la sentiva cantava, quando non se la sentiva parlava e basta. Ma una cosa così impegnativa, in cui oltre alle tastiere ha suonato anche il flauto, è stato come dire ‘Signori si chiude". Ed è stato meraviglioso».